mercoledì 5 ottobre 2011

PASOLINI




LA FORZA DEL PASSATO
di Natascia Ancarani


Io sono una forza del passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
            P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa

Imboccando la strada statale 235 da Pavia a Lodi, oltrepassata la frazione di Fosso Armato, s'incontra sulla destra la Cascina Torre Bianca. Nonostante il nome, non è, o non è più, una delle vecchie cascine che testimoniano il passato rurale della zona. È un’azienda agricola moderna, composta da più strutture abitative, di una bruttezza immediata allo sguardo più svagato. 






Fabbricati squallidi, di cemento nudo, se ne incontrano spesso nelle campagne lombarde. Nascono inaspettati lungo le strade che percorriamo ogni giorno, si moltiplicano senza regole, deteriorano la bellezza del paesaggio agricolo, con le distese d’acqua che riflettono i cieli, i reticolati di alberi che corrono lungo le rogge. Capannoni prefabbricati, contenitori di merci, squadrati, funzionali, grigi. Spuntano all’entrata di un antico centro termale, alle spalle di una chiesa settecentesca, coprono la visuale di una collina e del suo castello, senza un piano che spieghi, con un’apparenza di ragione, la loro presenza in quel luogo. 
La cascina Torre Bianca ha qualcosa di emblematico nella sua bruttezza. Le case dell’azienda sono di una semplicità essenziale, si specchiano l’una nell’altra, identiche, grigie, senza decorazioni. L’intonaco è ancora grezzo, nessuno ha mai pensato d'imbiancare i muri. Perfettamente funzionali ai loro compiti produttivi, progettate forse per operai o tecnici agrari, sono grandi e comode. Il piano terra è adibito a magazzino attrezzi, sobrie scale di metallo conducono al piano abitabile, con una terrazza abbellita da qualche vaso di fiori. L’aia, che nelle vecchie cascine era di terra battuta e a volte si riempiva di fango nelle pendenze, è stata con poche nostalgie e buon senso pratico sostituita da una colata spessa di cemento. Al centro si raggruppano innumerevoli silos e due capannoni. Una fila di lampioni moderni la illumina anche di notte. All’entrata, sul cartello appeso, il nome “Cascina Torre Bianca” ha perso qualche lettera, poco più in alto pende una campana moderna sorretta da un tubo di metallo. Forse scandiva le ore del lavoro o chiamava a raccolta in caso di pericolo. L’insieme ricorda l’entrata di un carcere o di un accampamento in disuso. Una costruzione della nuova agricoltura industrializzata, efficiente, adeguata agli scopi produttivi, poco importa se brutta. Un prodotto della modernità che non deve nulla al proprio passato. Difficile immaginare che un tempo abbia avuto un’altra forma o un’altra storia.
Invece proprio qui, sullo stesso sito, con lo stesso nome di Torre Bianca, sorgeva l’antica cascina in cui Pasolini, come si apprende dal bel documentario di Roberto Figazzolo I luoghi oggi e ieri raccontano Pasolini, ha girato alcune scene di Teorema. Sono le scene in cui Emilia, la serva-contadina, dopo aver abbandonato il mondo cittadino e industriale, ritorna alle proprie origini, nella cascina in cui è nata. Lì, dopo giorni di digiuno in cui mangia solo le ortiche che crescono lungo i muri, si compie il miracolo, davanti ai contadini riuniti nell’aia. Emilia levita nel cielo e resta sospesa sui tetti. 
Come si può ancora vedere in Teorema, Cascina Torre Bianca era un’antica cascina lombarda, l’aia di terra battuta, la fila di pioppi cipressini lungo la strada sterrata che portava a una delle entrate, i covoni di erba per gli animali raccolti all’asciutto sotto i portici, le case dei salariati in rovina, la casa padronale ancora abitabile. Erano ancora presenti, conservate nell’architettura, le tracce religiose di altre epoche, come Pasolini ci mostra nelle riprese: l’arco all’entrata della cascina ricordava un tempietto greco, il campanile con l’orologio della casa padronale, simile in tutto a quello di una chiesa, chiamava a raccolta la popolazione durante il miracolo. Vestigia di molteplici storie, letteralmente cancellate dall’affermazione della nuova industria agricola. 


Nel documentario sulla città di Orte, Pasolini mostrava a un ideale spettatore due diverse riprese della città. Nella prima la città appare inserita armonicamente nel contesto naturale, preservata nella sua forma originaria. Le case sono raccolte nelle mura antiche, sulla vetta del monte, mentre la linea naturale del paesaggio, che scende dolcemente verso la pianura, resta intatta. Nella seconda ripresa che si allarga sul resto del paesaggio, si nota invece l’inserimento di nuove costruzioni, alcuni condomini che potevano con ogni probabilità essere innalzati altrove, che spezzano e deturpano la forma naturale del paesaggio. 
Ancor più interessante sembra la parte successiva del documentario. Pasolini raccomanda di salvare, con lo stesso accanimento con cui si conservano i monumenti o le opere di un artista, anche le testimonianze più umili del passato. Raccomanda di salvare, per esempio, la stretta viuzza dal selciato sconnesso, che sale verso la città di Orte, allo stesso modo in cui, in letteratura, si conservano, accanto alla poesia d’autore, i testi poetici degli anonimi popolari. Una vecchia via dai ciottoli sconnessi, una cascina in rovina, un rudere nel mezzo della campagna, “sogno di un arco, di una volta romana”, sono umili cose, ma restano, come testimoni incompresi, solitari, “senza amore”
 a ricordare il lavoro anonimo di tanti uomini.  
Perché questo “accanimento”, come Pasolini stesso lo definisce, nel conservare le opere del passato?
Lo stesso Pasolini, con l’onestà intellettuale che gli è propria, ha vagliato con sospetto critico, con un atteggiamento quasi implacabile e crudele, quest'aspetto del suo pensiero, come emerge dell’intervista a cura di Jean Duflot negli anni Settanta. In questa nostalgia del passato potrebbe nascondersi un’istanza conservatrice o affermarsi un’idea di redenzione utopica che ha qualcosa di consolatorio. Un’attenzione esacerbata alle forme estetiche del paesaggio, inoltre, potrebbe nascere dalla sensibilità di un’élite raffinata e borghese. 
 D’altra parte sembra chiaro che la conservazione del passato, in particolare del mondo contadino o delle civiltà del Terzo Mondo, gioca nel pensiero di Pasolini un ruolo particolare, si potrebbe dire un ruolo rivoluzionario. È infatti la presenza viva di culture particolaristiche, presenti e passate, che aumenta la forza di opposizione, di resistenza, all’omologazione dell’esistente, a quello che Pasolini chiamava nuovo totalitarismo. Aumenta in altre parole la forza di resistenza al potere, in particolare a quello neocapitalistico del consumismo. La capacità di contrasto dialettico che apparterrebbe alle culture “originarie” o popolari, comunque diverse dalla cultura dominante, proviene da aspetti diversi. 








Pasolini identifica la civiltà contadina, così importante nella sua opera, con una civiltà del sacro. Nel caso italiano la religiosità arcaica che apparteneva a questa civiltà è stata minacciata e deformata dall’intervento istituzionale della chiesa, ma molte delle caratteristiche originarie si sono conservate intatte sopravvivendo accanto a quelle successive, mescolandosi alla religione istituzionale. L’interesse di Pasolini per il sacro appartiene senza dubbio, come ha dichiarato, a quella meraviglia originaria che il poeta mantiene di fronte alla realtà, in altre parole appartiene alla sua vocazione poetica. Ma ben più interessante ci sembra l’affermazione che il sacro rappresenta in ogni individuo un centro intangibile, protetto, che difficilmente può essere raggiunto e modificato dalle manipolazioni del potere. “Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere.”

Le culture contadine, di cui Pasolini osservava la scomparsa negli anni Settanta, avevano caratteristiche essenziali, quali la sacralità, la frugalità di vita, che le opponevano al mondo pragmatico e razionale della borghesia moderna. Un conflitto ben incarnato dall’incontro tragico di Medea e Giasone, così come Pasolini lo descrive nel film Medea. “Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso del metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo.”



In gioco non c’è dunque un sentimento nostalgico, un atteggiamento conservatore che non si adegua alle veloci trasformazioni del mondo moderno, si tratta invece di mantenere in vita un contrasto dialettico, di salvare culture che non possono essere, per le loro caratteristiche intrinseche, annullate dal potere. Si tratta di mantenere aperto il conflitto di classe, evidentemente, di opporre cultura dominata e dominante, là dove le differenze culturali sembrano scomparse, proletari, sottoproletari, contadini e borghesi sembrano identici e il potere impone l’omogeneità dei comportamenti. Solo l’esistenza attiva di questo conflitto nella società sembra garantire al singolo libertà di scelta: perché il nuovo potere, quello consumistico, non si accontenta di dominare, sostiene Pasolini, non chiede semplice obbedienza, ma per le sue stesse caratteristiche, pretende l’adesione interiore, la convinzione dell’individuo. In altre parole mira alla manipolazione delle coscienze. 
La sopravvivenza di culture diverse, non risolvibili in quella dominante, svolgerebbe dunque un ruolo vitale per la stessa libertà dei singoli. Non solo la cultura contadina, che per le sue caratteristiche sembrava presentarsi come quella capace di opporsi maggiormente alla “profanazione” del nuovo potere consumistico, ma anche quella operaia o quella del sottoproletariato. 
Gli ultimi articoli di Pasolini, allarmati, insistenti, straordinariamente “prossimi” a noi, rispecchiano con lungimiranza il cambiamento antropologico che si è dispiegato con sempre maggiore chiarezza negli ultimi trent’anni di storia italiana. Un fenomeno che egli descriveva con l’espressione genocidio di culture particolaristiche. È utile riassumere brevemente il suo pensiero. 
Secondo Pasolini negli anni Sessanta e Settanta si è assistito in Italia ad un’accelerazione artificiale, a un rapido processo di omologazione della società. Il potere consumistico richiede ad ogni singolo di abbandonare la propria cultura originaria per acquisire quella cultura media, quella media capacità di recepire le informazioni diffuse dai mass media, che ne fanno un consumatore ideale. Il paese, per la sua tardiva unificazione, per la diversità del suo sviluppo, aveva una stratificazione sociale particolarmente ricca, a cui si aggiungevano, anche all’interno delle stessa classe sociale, le differenze regionali. Queste differenze si sono rapidamente attenuate, uno degli strumenti principali di questa rapida omologazione è stata la diffusione capillare della televisione, ben più della scuola di massa. La televisione ha creato una lingua italiana comune, povera, tecnologica, che è però utile strumento di comunicazione nazionale, ha limitato l’uso dei dialetti, e soprattutto attraverso la rappresentazione vivente dei suoi modelli, ha diffuso stili di comportamento imitati dai giovani di tutto il paese, da Palermo a Milano. Il nuovo potere ha sostituito le diverse culture del paese, quella contadina, quelle operaia, persino quella piccolo borghese, militarista e clericale, con una cultura di massa nazionale, adatta alla civiltà dei consumi. I valori inutili alla sua espansione, il senso del sacro appartenente al  mondo contadino, ma anche il senso del decoro, la sobrietà del risparmio borghese, hanno perso importanza. Al loro posto l’imperio di un edonismo sfrenato. 
Neppure il fascismo, come Pasolini ha ripetuto più volte, era riuscito, nella sua volontà totalitaria, a intaccare queste culture, che avevano continuato a sopravvivere come mondi sotterranei. L’adesione ai valori del fascismo era stata per molti italiani, apparente, di facciata. “Vanamente il potere 'totalitario’ iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere, da mettere e levare.”





La trasformazione operata dalla società dei consumi, al contrario, ha provocato la scomparsa dei linguaggi particolari, gergali o dialettali, ha omologato gesti e comportamenti. Ha pubblicizzato modelli univoci di vita, a cui i giovani devono adeguarsi, se vogliono essere felici. La tolleranza, la libertà che il nuovo potere sembra garantire, rispetto a quello clericale e militarista del dopoguerra, è apparente. I nuovi comportamenti, imposti dal potere dei consumi, hanno una forza di penetrazione delle coscienze sconosciuta in passato. Essere felici, essere in coppia (una coppia eterosessuale, s'intende, che si avvia a diventare la famiglia consumatrice di molte pubblicità) avere un certo livello di benessere diventano obblighi, che paradossalmente generano infelicità e disagio. Generano un’ansia continua di adeguamento, il timore di non poter essere uguali agli altri, altrettanto felici come gli altri. 
“L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso.”
La sopravvivenza delle culture particolaristiche, preserva il conflitto dialettico in una società che assume sempre di più il volto univoco e uniforme del potere. Quale dialettica, quale conflitto potrebbe sopravvivere fra classi dominate e potere, se le culture delle diverse classi sociali scompaiono e si uniformano a quell’unica imposta dal potere? Il segnale di allarme, lanciato da Pasolini negli anni Settanta, di fronte alla scomparsa dello straordinario patrimonio di differenze culturali che l’Italia ancora conservava, torna a essere particolarmente attuale oggi, di fronte al fenomeno, recente per il nostro paese, dell’immigrazione. Dovremmo mettere lo stesso accanimento nel salvare dalla distruzione un’antica cascina, il selciato sconnesso di una viuzza romana, ma anche le diverse culture degli immigrati, contro ogni tentativo d'integrazione omologante. La posta in gioco è infatti alta, non solo salviamo i valori della solidarietà e rispettiamo la dignità di altri popoli. Salvando la forza identitaria di una cultura manteniamo attivo il conflitto, una viva dialettica democratica, in altre parole, preserviamo l’esercizio della nostra libertà. 
Molti e spaventosi sono i pericoli che provengono da una società che rinuncia a preservare le culture diverse che sopravvivono al proprio interno, come ci avverte Pasolini.  
I valori della società dei consumi, l’edonismo apparentemente liberale che la caratterizza, vengono comunicati in modo nuovo rispetto al passato, in un certo senso calati dall’alto attraverso il potere astratto dei mass media. Non sono cioè valori che nascono dai rapporti originari, vivi, dalla creatività etica, se possiamo chiamarla così, di un gruppo, di una classe sociale, ma vengono in un certo senso veicolati dall’esterno. L’individuo della società consumistica, per quanto proclami la propria individualità concreta, fondamentalmente l’ha persa, E’ un uomo senza radici, senza l’eticità particolare della cultura da cui proviene, ha perso quei rapporti culturali concreti che possono generare una specifica eticità. 
Pasolini non trascura di farci esempi chiari di questo fenomeno, per esempio la scomparsa della creatività linguistica nelle borgate romane, sostituita dall’italiano povero e ripetitivo diffuso dalla televisione. Secondo Pasolini, un giovane delle borgate negli anni Settanta non sarebbe più stato in grado di comprendere il dialetto utilizzato pochi anni prima nei romanzi e sarebbe stato costretto a consultare il glossario, come un giovane di Milano. 
Mentre nel passato i giovani delle borgate romane erano orgogliosi di appartenere al sottoproletariato, di vivere di espedienti, e deridevano con disprezzo quelli che si piegavano agli obblighi della società borghese, negli anni Settanta avevano iniziato a vergognarsi della propria condizione e scrivevano sulla propria carta d’identità il falso “titolo” di studente. 
Un singolo deprivato del mondo etico che può sostanziarlo perde, con le proprie radici, anche quei limiti, quelle regole vive, attive nel proprio contesto originario, che possono orientare la sua condotta morale, la sua scelta fra il bene e il male. “L’uomo di questa mutazione, quale che sia la sua rivendicazione di autonomia e di individualismo, non appartiene più a sé stesso. È un uomo formale, privato di tutti i suoi poteri (...) Quest’uomo non ha più radici, è una creatura mostruosa del sistema; lo ritengo capace di tutto.”






L’uguaglianza delle società consumistiche, come si diceva, non è conquistata, ma calata dall’alto, è un’uguaglianza obbligatoria. Apparentemente, la società dei consumi diffonde un certo liberalismo necessario all’etica del consumatore. Eppure, ci avverte un personaggio del film Salò: “Le società repressive reprimono tutto, quindi gli uomini possono fare tutto, le società permissive permettono qualcosa e si può fare solo quel qualcosa.” Consumare, fare sesso, essere felici, vivere nel benessere, questi comportamenti apparentemente liberali, finiscono per diventare obbligatori. Essendo gli unici che vengono universalmente affermati nella società consumistica, assumono un valore assoluto. Pasolini ci avverte: una società che tende all’omologazione dei comportamenti diventerà la più intollerante, nonostante l’apparenza permissiva, liberale, edonistica con cui si presenta. “Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza.”
Nel film Teorema, il ritorno di Emilia alle proprie origini contadine si conclude in un modo che ha spesso disorientato il pubblico. Dopo il miracolo Emilia si allontana nuovamente dalla cascina, verso le periferie cittadine, accompagnata da una contadina vestita a lutto (la madre di Pasolini). Si ferma vicino alla buca profonda di un cantiere e lì si fa seppellire. Mentre la contadina la ricopre di terra, Emilia la rassicura: non è andata nel cantiere per morire, ma per diventare una sorgente. Saranno le  lacrime che scendono dagli occhi di Emilia a creare questa sorgente. Il significato dell’episodio finale non è difficile da esplicitare, come spiega Pasolini: le culture passate sopravvivono spesso sotterraneamente e costituiscono fonte vitale per le culture successive. 
“Intendo rammentare come le civiltà anteriori alle nostre non sono affatto scomparse, ma si seppelliscono soltanto. Cosicché la civiltà contadina permane seppellita sotto il mondo operaio, sotto la civiltà industriale. In realtà può darsi che sia questo l’unico momento di ottimismo nel film.”



Un momento di ottimismo. Un momento di speranza, parola che Pasolini considerava consolatoria. Non sappiamo se la cultura contadina, pressoché scomparsa nell’arco di pochi decenni, come altre culture popolari del nostro paese, sia solo “seppellita” sotto il mondo moderno e continui in qualche modo ad esercitare la sua potenza dialettica di opposizione, con la forza del passato. Sappiamo che i giorni che abbiamo attraversato si sono rivelati anche peggiori di quelli che Pasolini aveva descritto  nel film Salò, che il suo pensiero ha assunto col passare degli anni un sapore amaro di profezia. Sappiamo che intanto nelle periferie milanesi si sono moltiplicati i cantieri edili. 
 Sappiamo che nelle loro fondamenta, al posto della terra fertile che viene sottratta, non resta un corpo sacrificale, una sorgente vitale: perché la terra continui a dare i suoi frutti e la cultura contadina sopravviva nel nuovo mondo industriale. Al posto del mondo precedente, scomparso insieme ai suoi valori spirituali e ai suoi limiti etici, resta un vuoto, dove tutto è possibile. Dove un tempo c’era un campo agricolo da coltivare, a Desio, a Varese, nel “Nord laborioso”, ora scavano le gru della ‘Ndrangheta, i camion vanno e vengono, rovesciando scarti delle bonifiche industriali e incamerando guadagni straordinari. Cromo e amianto, lastre di eternit, copertoni, idrocarburi, “una fanghiglia luccicante di cavi elettrici sminuzzati (...) sacchi laceri zeppi di plastica oleosa.”
 Materiali altamente tossici, a maturare, dentro la terra, il futuro del nostro paese.