mercoledì 5 ottobre 2011

PASOLINI




LA FORZA DEL PASSATO
di Natascia Ancarani


Io sono una forza del passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
            P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa

Imboccando la strada statale 235 da Pavia a Lodi, oltrepassata la frazione di Fosso Armato, s'incontra sulla destra la Cascina Torre Bianca. Nonostante il nome, non è, o non è più, una delle vecchie cascine che testimoniano il passato rurale della zona. È un’azienda agricola moderna, composta da più strutture abitative, di una bruttezza immediata allo sguardo più svagato. 






Fabbricati squallidi, di cemento nudo, se ne incontrano spesso nelle campagne lombarde. Nascono inaspettati lungo le strade che percorriamo ogni giorno, si moltiplicano senza regole, deteriorano la bellezza del paesaggio agricolo, con le distese d’acqua che riflettono i cieli, i reticolati di alberi che corrono lungo le rogge. Capannoni prefabbricati, contenitori di merci, squadrati, funzionali, grigi. Spuntano all’entrata di un antico centro termale, alle spalle di una chiesa settecentesca, coprono la visuale di una collina e del suo castello, senza un piano che spieghi, con un’apparenza di ragione, la loro presenza in quel luogo. 
La cascina Torre Bianca ha qualcosa di emblematico nella sua bruttezza. Le case dell’azienda sono di una semplicità essenziale, si specchiano l’una nell’altra, identiche, grigie, senza decorazioni. L’intonaco è ancora grezzo, nessuno ha mai pensato d'imbiancare i muri. Perfettamente funzionali ai loro compiti produttivi, progettate forse per operai o tecnici agrari, sono grandi e comode. Il piano terra è adibito a magazzino attrezzi, sobrie scale di metallo conducono al piano abitabile, con una terrazza abbellita da qualche vaso di fiori. L’aia, che nelle vecchie cascine era di terra battuta e a volte si riempiva di fango nelle pendenze, è stata con poche nostalgie e buon senso pratico sostituita da una colata spessa di cemento. Al centro si raggruppano innumerevoli silos e due capannoni. Una fila di lampioni moderni la illumina anche di notte. All’entrata, sul cartello appeso, il nome “Cascina Torre Bianca” ha perso qualche lettera, poco più in alto pende una campana moderna sorretta da un tubo di metallo. Forse scandiva le ore del lavoro o chiamava a raccolta in caso di pericolo. L’insieme ricorda l’entrata di un carcere o di un accampamento in disuso. Una costruzione della nuova agricoltura industrializzata, efficiente, adeguata agli scopi produttivi, poco importa se brutta. Un prodotto della modernità che non deve nulla al proprio passato. Difficile immaginare che un tempo abbia avuto un’altra forma o un’altra storia.
Invece proprio qui, sullo stesso sito, con lo stesso nome di Torre Bianca, sorgeva l’antica cascina in cui Pasolini, come si apprende dal bel documentario di Roberto Figazzolo I luoghi oggi e ieri raccontano Pasolini, ha girato alcune scene di Teorema. Sono le scene in cui Emilia, la serva-contadina, dopo aver abbandonato il mondo cittadino e industriale, ritorna alle proprie origini, nella cascina in cui è nata. Lì, dopo giorni di digiuno in cui mangia solo le ortiche che crescono lungo i muri, si compie il miracolo, davanti ai contadini riuniti nell’aia. Emilia levita nel cielo e resta sospesa sui tetti. 
Come si può ancora vedere in Teorema, Cascina Torre Bianca era un’antica cascina lombarda, l’aia di terra battuta, la fila di pioppi cipressini lungo la strada sterrata che portava a una delle entrate, i covoni di erba per gli animali raccolti all’asciutto sotto i portici, le case dei salariati in rovina, la casa padronale ancora abitabile. Erano ancora presenti, conservate nell’architettura, le tracce religiose di altre epoche, come Pasolini ci mostra nelle riprese: l’arco all’entrata della cascina ricordava un tempietto greco, il campanile con l’orologio della casa padronale, simile in tutto a quello di una chiesa, chiamava a raccolta la popolazione durante il miracolo. Vestigia di molteplici storie, letteralmente cancellate dall’affermazione della nuova industria agricola. 


Nel documentario sulla città di Orte, Pasolini mostrava a un ideale spettatore due diverse riprese della città. Nella prima la città appare inserita armonicamente nel contesto naturale, preservata nella sua forma originaria. Le case sono raccolte nelle mura antiche, sulla vetta del monte, mentre la linea naturale del paesaggio, che scende dolcemente verso la pianura, resta intatta. Nella seconda ripresa che si allarga sul resto del paesaggio, si nota invece l’inserimento di nuove costruzioni, alcuni condomini che potevano con ogni probabilità essere innalzati altrove, che spezzano e deturpano la forma naturale del paesaggio. 
Ancor più interessante sembra la parte successiva del documentario. Pasolini raccomanda di salvare, con lo stesso accanimento con cui si conservano i monumenti o le opere di un artista, anche le testimonianze più umili del passato. Raccomanda di salvare, per esempio, la stretta viuzza dal selciato sconnesso, che sale verso la città di Orte, allo stesso modo in cui, in letteratura, si conservano, accanto alla poesia d’autore, i testi poetici degli anonimi popolari. Una vecchia via dai ciottoli sconnessi, una cascina in rovina, un rudere nel mezzo della campagna, “sogno di un arco, di una volta romana”, sono umili cose, ma restano, come testimoni incompresi, solitari, “senza amore”
 a ricordare il lavoro anonimo di tanti uomini.  
Perché questo “accanimento”, come Pasolini stesso lo definisce, nel conservare le opere del passato?
Lo stesso Pasolini, con l’onestà intellettuale che gli è propria, ha vagliato con sospetto critico, con un atteggiamento quasi implacabile e crudele, quest'aspetto del suo pensiero, come emerge dell’intervista a cura di Jean Duflot negli anni Settanta. In questa nostalgia del passato potrebbe nascondersi un’istanza conservatrice o affermarsi un’idea di redenzione utopica che ha qualcosa di consolatorio. Un’attenzione esacerbata alle forme estetiche del paesaggio, inoltre, potrebbe nascere dalla sensibilità di un’élite raffinata e borghese. 
 D’altra parte sembra chiaro che la conservazione del passato, in particolare del mondo contadino o delle civiltà del Terzo Mondo, gioca nel pensiero di Pasolini un ruolo particolare, si potrebbe dire un ruolo rivoluzionario. È infatti la presenza viva di culture particolaristiche, presenti e passate, che aumenta la forza di opposizione, di resistenza, all’omologazione dell’esistente, a quello che Pasolini chiamava nuovo totalitarismo. Aumenta in altre parole la forza di resistenza al potere, in particolare a quello neocapitalistico del consumismo. La capacità di contrasto dialettico che apparterrebbe alle culture “originarie” o popolari, comunque diverse dalla cultura dominante, proviene da aspetti diversi. 








Pasolini identifica la civiltà contadina, così importante nella sua opera, con una civiltà del sacro. Nel caso italiano la religiosità arcaica che apparteneva a questa civiltà è stata minacciata e deformata dall’intervento istituzionale della chiesa, ma molte delle caratteristiche originarie si sono conservate intatte sopravvivendo accanto a quelle successive, mescolandosi alla religione istituzionale. L’interesse di Pasolini per il sacro appartiene senza dubbio, come ha dichiarato, a quella meraviglia originaria che il poeta mantiene di fronte alla realtà, in altre parole appartiene alla sua vocazione poetica. Ma ben più interessante ci sembra l’affermazione che il sacro rappresenta in ogni individuo un centro intangibile, protetto, che difficilmente può essere raggiunto e modificato dalle manipolazioni del potere. “Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere.”

Le culture contadine, di cui Pasolini osservava la scomparsa negli anni Settanta, avevano caratteristiche essenziali, quali la sacralità, la frugalità di vita, che le opponevano al mondo pragmatico e razionale della borghesia moderna. Un conflitto ben incarnato dall’incontro tragico di Medea e Giasone, così come Pasolini lo descrive nel film Medea. “Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso del metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo.”



In gioco non c’è dunque un sentimento nostalgico, un atteggiamento conservatore che non si adegua alle veloci trasformazioni del mondo moderno, si tratta invece di mantenere in vita un contrasto dialettico, di salvare culture che non possono essere, per le loro caratteristiche intrinseche, annullate dal potere. Si tratta di mantenere aperto il conflitto di classe, evidentemente, di opporre cultura dominata e dominante, là dove le differenze culturali sembrano scomparse, proletari, sottoproletari, contadini e borghesi sembrano identici e il potere impone l’omogeneità dei comportamenti. Solo l’esistenza attiva di questo conflitto nella società sembra garantire al singolo libertà di scelta: perché il nuovo potere, quello consumistico, non si accontenta di dominare, sostiene Pasolini, non chiede semplice obbedienza, ma per le sue stesse caratteristiche, pretende l’adesione interiore, la convinzione dell’individuo. In altre parole mira alla manipolazione delle coscienze. 
La sopravvivenza di culture diverse, non risolvibili in quella dominante, svolgerebbe dunque un ruolo vitale per la stessa libertà dei singoli. Non solo la cultura contadina, che per le sue caratteristiche sembrava presentarsi come quella capace di opporsi maggiormente alla “profanazione” del nuovo potere consumistico, ma anche quella operaia o quella del sottoproletariato. 
Gli ultimi articoli di Pasolini, allarmati, insistenti, straordinariamente “prossimi” a noi, rispecchiano con lungimiranza il cambiamento antropologico che si è dispiegato con sempre maggiore chiarezza negli ultimi trent’anni di storia italiana. Un fenomeno che egli descriveva con l’espressione genocidio di culture particolaristiche. È utile riassumere brevemente il suo pensiero. 
Secondo Pasolini negli anni Sessanta e Settanta si è assistito in Italia ad un’accelerazione artificiale, a un rapido processo di omologazione della società. Il potere consumistico richiede ad ogni singolo di abbandonare la propria cultura originaria per acquisire quella cultura media, quella media capacità di recepire le informazioni diffuse dai mass media, che ne fanno un consumatore ideale. Il paese, per la sua tardiva unificazione, per la diversità del suo sviluppo, aveva una stratificazione sociale particolarmente ricca, a cui si aggiungevano, anche all’interno delle stessa classe sociale, le differenze regionali. Queste differenze si sono rapidamente attenuate, uno degli strumenti principali di questa rapida omologazione è stata la diffusione capillare della televisione, ben più della scuola di massa. La televisione ha creato una lingua italiana comune, povera, tecnologica, che è però utile strumento di comunicazione nazionale, ha limitato l’uso dei dialetti, e soprattutto attraverso la rappresentazione vivente dei suoi modelli, ha diffuso stili di comportamento imitati dai giovani di tutto il paese, da Palermo a Milano. Il nuovo potere ha sostituito le diverse culture del paese, quella contadina, quelle operaia, persino quella piccolo borghese, militarista e clericale, con una cultura di massa nazionale, adatta alla civiltà dei consumi. I valori inutili alla sua espansione, il senso del sacro appartenente al  mondo contadino, ma anche il senso del decoro, la sobrietà del risparmio borghese, hanno perso importanza. Al loro posto l’imperio di un edonismo sfrenato. 
Neppure il fascismo, come Pasolini ha ripetuto più volte, era riuscito, nella sua volontà totalitaria, a intaccare queste culture, che avevano continuato a sopravvivere come mondi sotterranei. L’adesione ai valori del fascismo era stata per molti italiani, apparente, di facciata. “Vanamente il potere 'totalitario’ iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere, da mettere e levare.”





La trasformazione operata dalla società dei consumi, al contrario, ha provocato la scomparsa dei linguaggi particolari, gergali o dialettali, ha omologato gesti e comportamenti. Ha pubblicizzato modelli univoci di vita, a cui i giovani devono adeguarsi, se vogliono essere felici. La tolleranza, la libertà che il nuovo potere sembra garantire, rispetto a quello clericale e militarista del dopoguerra, è apparente. I nuovi comportamenti, imposti dal potere dei consumi, hanno una forza di penetrazione delle coscienze sconosciuta in passato. Essere felici, essere in coppia (una coppia eterosessuale, s'intende, che si avvia a diventare la famiglia consumatrice di molte pubblicità) avere un certo livello di benessere diventano obblighi, che paradossalmente generano infelicità e disagio. Generano un’ansia continua di adeguamento, il timore di non poter essere uguali agli altri, altrettanto felici come gli altri. 
“L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso.”
La sopravvivenza delle culture particolaristiche, preserva il conflitto dialettico in una società che assume sempre di più il volto univoco e uniforme del potere. Quale dialettica, quale conflitto potrebbe sopravvivere fra classi dominate e potere, se le culture delle diverse classi sociali scompaiono e si uniformano a quell’unica imposta dal potere? Il segnale di allarme, lanciato da Pasolini negli anni Settanta, di fronte alla scomparsa dello straordinario patrimonio di differenze culturali che l’Italia ancora conservava, torna a essere particolarmente attuale oggi, di fronte al fenomeno, recente per il nostro paese, dell’immigrazione. Dovremmo mettere lo stesso accanimento nel salvare dalla distruzione un’antica cascina, il selciato sconnesso di una viuzza romana, ma anche le diverse culture degli immigrati, contro ogni tentativo d'integrazione omologante. La posta in gioco è infatti alta, non solo salviamo i valori della solidarietà e rispettiamo la dignità di altri popoli. Salvando la forza identitaria di una cultura manteniamo attivo il conflitto, una viva dialettica democratica, in altre parole, preserviamo l’esercizio della nostra libertà. 
Molti e spaventosi sono i pericoli che provengono da una società che rinuncia a preservare le culture diverse che sopravvivono al proprio interno, come ci avverte Pasolini.  
I valori della società dei consumi, l’edonismo apparentemente liberale che la caratterizza, vengono comunicati in modo nuovo rispetto al passato, in un certo senso calati dall’alto attraverso il potere astratto dei mass media. Non sono cioè valori che nascono dai rapporti originari, vivi, dalla creatività etica, se possiamo chiamarla così, di un gruppo, di una classe sociale, ma vengono in un certo senso veicolati dall’esterno. L’individuo della società consumistica, per quanto proclami la propria individualità concreta, fondamentalmente l’ha persa, E’ un uomo senza radici, senza l’eticità particolare della cultura da cui proviene, ha perso quei rapporti culturali concreti che possono generare una specifica eticità. 
Pasolini non trascura di farci esempi chiari di questo fenomeno, per esempio la scomparsa della creatività linguistica nelle borgate romane, sostituita dall’italiano povero e ripetitivo diffuso dalla televisione. Secondo Pasolini, un giovane delle borgate negli anni Settanta non sarebbe più stato in grado di comprendere il dialetto utilizzato pochi anni prima nei romanzi e sarebbe stato costretto a consultare il glossario, come un giovane di Milano. 
Mentre nel passato i giovani delle borgate romane erano orgogliosi di appartenere al sottoproletariato, di vivere di espedienti, e deridevano con disprezzo quelli che si piegavano agli obblighi della società borghese, negli anni Settanta avevano iniziato a vergognarsi della propria condizione e scrivevano sulla propria carta d’identità il falso “titolo” di studente. 
Un singolo deprivato del mondo etico che può sostanziarlo perde, con le proprie radici, anche quei limiti, quelle regole vive, attive nel proprio contesto originario, che possono orientare la sua condotta morale, la sua scelta fra il bene e il male. “L’uomo di questa mutazione, quale che sia la sua rivendicazione di autonomia e di individualismo, non appartiene più a sé stesso. È un uomo formale, privato di tutti i suoi poteri (...) Quest’uomo non ha più radici, è una creatura mostruosa del sistema; lo ritengo capace di tutto.”






L’uguaglianza delle società consumistiche, come si diceva, non è conquistata, ma calata dall’alto, è un’uguaglianza obbligatoria. Apparentemente, la società dei consumi diffonde un certo liberalismo necessario all’etica del consumatore. Eppure, ci avverte un personaggio del film Salò: “Le società repressive reprimono tutto, quindi gli uomini possono fare tutto, le società permissive permettono qualcosa e si può fare solo quel qualcosa.” Consumare, fare sesso, essere felici, vivere nel benessere, questi comportamenti apparentemente liberali, finiscono per diventare obbligatori. Essendo gli unici che vengono universalmente affermati nella società consumistica, assumono un valore assoluto. Pasolini ci avverte: una società che tende all’omologazione dei comportamenti diventerà la più intollerante, nonostante l’apparenza permissiva, liberale, edonistica con cui si presenta. “Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza.”
Nel film Teorema, il ritorno di Emilia alle proprie origini contadine si conclude in un modo che ha spesso disorientato il pubblico. Dopo il miracolo Emilia si allontana nuovamente dalla cascina, verso le periferie cittadine, accompagnata da una contadina vestita a lutto (la madre di Pasolini). Si ferma vicino alla buca profonda di un cantiere e lì si fa seppellire. Mentre la contadina la ricopre di terra, Emilia la rassicura: non è andata nel cantiere per morire, ma per diventare una sorgente. Saranno le  lacrime che scendono dagli occhi di Emilia a creare questa sorgente. Il significato dell’episodio finale non è difficile da esplicitare, come spiega Pasolini: le culture passate sopravvivono spesso sotterraneamente e costituiscono fonte vitale per le culture successive. 
“Intendo rammentare come le civiltà anteriori alle nostre non sono affatto scomparse, ma si seppelliscono soltanto. Cosicché la civiltà contadina permane seppellita sotto il mondo operaio, sotto la civiltà industriale. In realtà può darsi che sia questo l’unico momento di ottimismo nel film.”



Un momento di ottimismo. Un momento di speranza, parola che Pasolini considerava consolatoria. Non sappiamo se la cultura contadina, pressoché scomparsa nell’arco di pochi decenni, come altre culture popolari del nostro paese, sia solo “seppellita” sotto il mondo moderno e continui in qualche modo ad esercitare la sua potenza dialettica di opposizione, con la forza del passato. Sappiamo che i giorni che abbiamo attraversato si sono rivelati anche peggiori di quelli che Pasolini aveva descritto  nel film Salò, che il suo pensiero ha assunto col passare degli anni un sapore amaro di profezia. Sappiamo che intanto nelle periferie milanesi si sono moltiplicati i cantieri edili. 
 Sappiamo che nelle loro fondamenta, al posto della terra fertile che viene sottratta, non resta un corpo sacrificale, una sorgente vitale: perché la terra continui a dare i suoi frutti e la cultura contadina sopravviva nel nuovo mondo industriale. Al posto del mondo precedente, scomparso insieme ai suoi valori spirituali e ai suoi limiti etici, resta un vuoto, dove tutto è possibile. Dove un tempo c’era un campo agricolo da coltivare, a Desio, a Varese, nel “Nord laborioso”, ora scavano le gru della ‘Ndrangheta, i camion vanno e vengono, rovesciando scarti delle bonifiche industriali e incamerando guadagni straordinari. Cromo e amianto, lastre di eternit, copertoni, idrocarburi, “una fanghiglia luccicante di cavi elettrici sminuzzati (...) sacchi laceri zeppi di plastica oleosa.”
 Materiali altamente tossici, a maturare, dentro la terra, il futuro del nostro paese. 







sabato 21 maggio 2011

BERLINO. GUIDA ALLA CITTA' INVISIBILE


Natascia Ancarani

Dovrebbe essere così: le città restano, gli uomini passano. Le opere umane costituiscono, di solito, un contesto durevole. Danno a ogni vita, con il suo scorrere di sentimenti e situazioni, una qualche stabilità. La scalinata di un duomo, il profilo di una torre conservano la nostra identità nel divenire e trattengono le figure del passato: ci aiutano a ricordare chi abbiamo incontrato e chi siamo stati.
Immaginiamo di tornare in un luogo familiare, dopo anni di assenza, e di ritrovarlo cambiato, tanto da non riconoscerlo: la scuola, dove abbiamo vissuto le prime amicizie, non esiste più, due antichi palazzi sono stati abbattuti, da una parte c’è il vuoto, dall’altra un edificio moderno. Non sarebbe solo il luogo, a essere irriconoscibile. Il nostro stesso passato vacillerebbe, incerto e irreale. Forse diventerebbe una questione vitale ricordarlo con maggiore precisione, raccogliere vecchie foto o testimonianze, raccontare com’era un tempo.
Palazzo della repubblica come appariva negli anni della DDR
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A Berlino ho provato spesso questa sensazione di disorientamento e irrealtà: non solo quando la città, dopo la caduta del muro, è stata trasformata radicalmente, ma anche la prima volta che l’ho vista, nel 1985. C’erano luoghi che contraddicevano le aspettative più radicate. Particolari illogici simili a quelli del sogno, dove si mescolano frammenti di diverse realtà. Ho imparato a Berlino che la percezione di un luogo ha delle cadenze regolari. Che il nostro vedere prevede già, immediatamente, un’attesa del mondo. Binari che proseguono sotto un muro. Vie inesistenti, indicazioni stradali che non portano da nessuna parte. Finestre murate. Quartieri fantasma, dove s'incrociano solo pattuglie. E soprattutto i vuoti, improvvisi, senza senso: il cielo, contro cui si spezza l’ala di un palazzo, i campi incolti che si aprono come ferite in mezzo agli edifici urbani. In una città anche i vuoti sono strutturati: una piazza o un parco. È questo che ci aspettiamo di vedere, quando la percorriamo. Le ferite della città, quando l’ho vista per la prima volta, avevano qualcosa di scandaloso. Occorreva richiamare con forza il ricordo della storia, dare una spiegazione a quanto sembrava illogico e incomprensibile. La seconda guerra mondiale e la guerra fredda erano percepibili, con un’evidenza senza pari, nelle deformazioni del tessuto cittadino. Il carattere perturbante dei suoi paesaggi avrebbe colpito il turista più superficiale. Chiunque passasse dalla città, per quanto indifferente fosse alla conoscenza storica, finiva per interrogarsi sul suo passato.
Berlino è oggi, senza dubbio, una città che vuole ricordare il proprio passato. Le sinagoghe sono state restaurate, mostre all’aperto raccontano la storia della città, si passeggia lungo la “strada del muro”. Eppure, chi ha vissuto da vicino il cambiamento sa che il paesaggio è mutato troppo velocemente, che il bisogno di ricordare si è intrecciato a una contrapposta volontà di cancellare e rinnovare. Il muro è stato smontato e demolito nel giro di un anno, i murales più belli venduti all’estero. Solo una decisione rapida, presa dalla municipalità di Berlino est, ha permesso di conservare il settore della Bernauer Strasse. Diversi edifici della DDR sono stati abbattuti; dovunque ci si è affrettati e riempire i vuoti che la guerra ha lasciato. Quando ho rivisto Berlino, nel 1998, dopo qualche anno di assenza, la città stava cambiando a un ritmo sorprendente: un vecchio albergo per artisti era stato trasformato in una banca; dai terreni incolti spuntavano palazzi pieni di uffici; s'incrociavano turisti che vagavano inutilmente alla ricerca del Muro. Tutto doveva cambiare rapidamente, come se solo l’accelerazione, impressa alla storia, potesse garantire l’irreversibilità del cambiamento.
Il cambiamento non si arrestava neppure in quelle parti della città dove si era progettato di conservare o restaurare. Anche i memoriali trasformano una città. Anche l’opera di restaurazione, soprattutto se risale all’indietro di decenni, può modificare un luogo, fino a renderlo irriconoscibile. Come accade nella memoria individuale, la conservazione trasforma i ricordi e spesso li deforma. Ce ne rendiamo conto quando scattiamo una foto o scriviamo un diario. Per riemergere, o essere salvati, i ricordi attraversano trasformazioni coscienti, stratificazioni successive che li modificano. La trasformazione ad opera della memoria è evidente nel caso della Bernauer Strasse. Il luogo è stato ufficialmente dichiarato, Gedenkstätte, luogo della memoria, in altre parole monumento nazionale. Qui si dovrebbe conservare il ricordo del passato. Eppure tutto è cambiato. Chi ha vissuto per decenni nella via, non trova nulla di familiare nel paesaggio che osserva oggi dalla finestra. Ciò che resta del Muro è diventato un parallelepipedo artificiale, un monumento alle vittime del comunismo: i due muri, che un tempo correvano paralleli, sono stati chiusi da due lastre di metallo. Non si può entrare nel memoriale, si può solo osservare dall’alto. A questo fine è stata costruita una torre di metallo dall’altra parte della strada. Le restanti tavole del Muro, giacciono in un campo incolto, in attesa di una futura disposizione. La chiesa della Riconciliazione è stata ricostruita su un progetto moderno. Insomma, il luogo è irriconoscibile.
Ancor più emblematico è il caso del Palazzo della Repubblica. Il palazzo era sede del parlamento della DDR. È stato demolito da poco. Ne restano riproduzioni in miniatura nei negozi di souvenir. Al suo posto c’è un prato immenso dove si riposano i turisti. In futuro ricostruiranno l’antico palazzo imperiale. Altri edifici antichi, nelle vicinanze, sono stati restaurati. I marmi sbiancati dal restauro non hanno più nulla degli edifici fatiscenti, sbrecciati dalle pallottole e anneriti dal fuoco, che i cittadini della DDR hanno visto per oltre quarant’anni. I turisti di oggi non possono immaginare quale visione, da sogno o da incubo, fosse questo luogo. Il passato più lontano, con i suoi frontoni neoclassici, aveva attraversato indenne la tempesta della guerra, ma ne portava il marchio, nei suoi marmi neri e lacerati. Si affacciava fino a noi, come appesantito dagli avvenimenti e si specchiava nel presente, nel mondo effimero, nei vetri ultramoderni, dai riflessi aranciati, del palazzo governativo. Questa visione è rimasta nel ricordo di pochi: gli abitanti di Berlino est, molti di Berlino ovest, qualche turista. E da nessun’altra parte. Anche le città passano, soprattutto quando sopravvivono alla guerra. Più rapidamente degli uomini che le ricordano.


Chris Grabert, Flickr, Regime Creative Commons, Attribuzione non commerciale condividi allo stesso modo.
Palazzo delle repubblica come appariva poco prima dello smantellamento 

Kreuzberg 1985
Era facile, negli anni Ottanta, approdare a Kreuzberg. Nel quartiere si trovava facilmente un posto per dormire, gratuitamente o per poco, per qualche notte o per mesi. L’ospitalità del quartiere non era casuale, aveva ragioni politiche. Kreuzberg era un quartiere periferico, povero, addossato al Muro, abitato da pensionati, turchi, studenti e anarchici. Molte case erano sfuggite alla distruzione della guerra, ma non erano state restaurate o ristrutturate: era difficile viverci, erano prive di bagno e riscaldamento centralizzato. L’amministrazione cittadina, negli anni Settanta, le fece sgombrare, per abbattere quelle in rovina e ristrutturare le altre. Il progetto si trascinò a lungo e ben presto le case furono occupate illegalmente: studenti poveri, ragazzi che si trasferivano a Berlino per evitare il servizio militare, militanti politici e chiunque avesse bisogno di un alloggio economico. Nel 1985, quando conobbi il quartiere, la situazione si stava regolarizzando, l’amministrazione aveva sgomberato molte case, ma aveva permesso di restare, con regolare contratto, a chi si fosse impegnato a ristrutturare i locali. Molti appartamenti restarono così ai precedenti occupanti che ci vivevano in condivisione. L’abitudine di ospitare persone o di lasciare a qualcuno la propria stanza, in caso di assenza, restò immutata. Dormivo a Kreuzberg nel fine settimana, nella stanza di uno studente partito per la Francia. Dahlem, dove lavoravo, era un quartiere di professionisti, al lato opposto della città. Le sue vie erano quiete e alberate, era bello camminare nel verde, guardare i giardini rigogliosi delle ville, sdraiarsi nei parchi, ma il quartiere moriva verso le sette di sera, nelle vicinanze non c’era un cinema o un caffè, non c’era nulla. Quando si entrava a Kreuzberg si capiva immediatamente di entrare in un altro mondo. I gruppi erano ben definiti, ma si mescolavano con naturalezza: nelle vie animate le chiome dei punk svettavano sopra le altre, azzurre, verdi, rosse, nere. Passavano molti pensionati, vecchi abitanti del quartiere, con i carrelli della spesa. Le donne turche si coprivano i capelli con il velo, le più giovani calcavano sopra il fazzoletto dei berretti occidentali o portavano i capelli sciolti. Gli uomini s’incontravano ai crocicchi, portavano in strada una sedia, dopo il lavoro, parlavano turco e leggevano giornali tedeschi. Dalle vetrine dei caffè occhieggiavano strani manufatti, “opere d’arte” costruite con oggetti inservibili, sottratti alla spazzatura, riccioli di ferro, bulloni arrugginiti, frammenti di porcellana, cornici, abiti, giocattoli, vecchie cartoline. Le facciate delle case erano piene di murales. C’era di tutto: l’epopea dell’America Latina e un primo piano del Che, striscioni minacciosi, “Fate attenzione yuppies, qui brucia l’aria”; fiumi arancioni che scendevano in valli immaginarie, golfi azzurri, streghe, cavalli, immensi vermi. Chiunque entrava a Kreuzberg, non importa da dove venisse, si sentiva in una città straniera e familiare, misteriosa e accogliente.
La casa, dove dormivo, si trovava nella Orianien Strasse. Il palazzo era simile ad altri, occupati nel quartiere. Mattoni grigi e sporchi spuntavano dall’intonaco a pezzi. Nessun campanello in strada, portoni sempre aperti, scale sporche, piene di cicche e bottiglie. L’appartamento era in buone condizioni, le pareti imbiancate, il vecchio parquet lucidato. C’era un bagno con vasca e lavandino, ancora una rarità nel quartiere, in casa s'incrociavano degli amici che passavano per fare la doccia. Il WC era in comune con altri, sulle scale. Nell’appartamento vivevano tre studenti, sui trent’anni, cordiali e indipendenti, quando non volevano essere disturbati chiudevano la stanza a chiave, come fosse un appartamento a sé. Alternavano lo studio al lavoro. Uno di loro, Reinhard, viveva in quel periodo con un sussidio statale. Lo facevano in molti. Non usavano il sussidio per necessità, per sopravvivere quando mancava il lavoro. Lo usavano per assaporare un ozio completo, nel significato migliore del termine: l’ozio necessario, a persone libere da ogni attività pratica, per potersi dedicare interamente a un’attività spirituale. Non saprei dire se sia corretto utilizzare in questo modo risorse dello stato, accumulate a fatica per chi si trova in difficoltà. Mi limito a descrivere un fenomeno tipico del periodo. Il sussidio era intorno ai 300 marchi, oggi dovrebbe arrivare ai 600 euro. Sembrano pochi, eppure, in quelle condizioni, era possibile vivere pienamente. I bisogni materiali erano ridotti all’essenziale, ma anche il costo di molti beni era basso. Il mercato turco era fra i più economici, nell’usato si trovavano jeans e scarponi a un marco, l’affitto era irrisorio. Un buon film, nei cineforum, si vedeva per due marchi, i musei erano gratuiti. Reinhard studiava filosofia, la sua stanza era tappezzata di libri, conosceva bene tre lingue straniere, passava la giornata a leggere e la sera inseguiva nel quartiere concerti, letture pubbliche, spettacoli teatrali, riceveva gli amici con cui discuteva di politica e letteratura. Non importava ridurre all’essenziale i bisogni se la vita spirituale poteva svilupparsi più liberamente. L’isolamento di Berlino ovest offriva molti vantaggi ai giovani tedeschi: l’esenzione dal servizio militare, sussidi più alti e facili da ottenere, affitti bassi. Tutte queste condizioni sarebbero cambiate al crollo del Muro: l’alto tasso di disoccupazione e l’immigrazione dall’Est, avrebbero cambiato le condizioni per accedere agli aiuti di stato: più rigidi i controlli, più onerose le condizioni. Anche gli affitti, con Berlino capitale, sarebbero cresciuti rapidamente, in particolare nelle aree centrali. Nessuno, oggi, riuscirebbe a vivere altrettanto bene con il sussidio.
Nel 1988, quando tornai a Berlino, il palazzo era vuoto, pronto per essere ristrutturato. Tutti i palazzi antichi della città, di lì a poco, avrebbero seguito la stessa sorte, all’Est come all’Ovest. Sanieren è il termine usato: risanare. Una parola che ricorda una ristrutturazione asettica, una bonifica di appartamenti e di abitanti. Nei palazzi restaurati, entrano sempre nuovi inquilini, adatti agli affitti più alti. Passai da Oranien Strasse, senza avvertire, per fare una sorpresa. Il portone sulla strada era aperto, ma appena mi inoltrai nel cortile interno, notai un nuovo stato d’abbandono. Le finestre erano più sporche del solito, il cortile era pieno di cartoni stracciati dalle intemperie. Non c’era segno di vita, non una pianta, una tenda colorata, niente. L’intero palazzo era disabitato. Salii verso l’appartamento. Il campanello non funzionava, ma c’erano ancora i vecchi nomi. La toilette sulle scale era aperta. Provai a tirare lo sciacquone, così per scherzo, non c’era acqua. Davanti alla porta dell’appartamento c’erano degli stivali da donna, impolverati ma in buono stato. Forse qualcuno, già carico di pacchi, aveva deciso di abbandonarli all’ultimo momento, poco prima di lasciare per sempre la casa. Restai a fissarli come incantata, erano l’unica traccia materiale, quasi corporea, delle persone che avevo conosciuto. Non mi rimase altro. Più tardi tentai di rintracciare Reinhard sull’elenco telefonico, ma non riuscii a trovarlo. Sono tornata ancora una volta a Oranien Strasse, dieci anni dopo: la casa era stata risanata, la facciata ridipinta in giallo ocra, il portone ripulito e laccato di grigio. Era chiuso. Lessi i nomi sui campanelli, nessuno aveva qualcosa di familiare.
Kreuzberg è rimasto un quartiere ad alta presenza straniera, molti turchi hanno migliorato le loro condizioni economiche, hanno aperto locali, i loro figli hanno frequentato l’università, alcuni di loro sono diventati scrittori e registi. In fondo, il quartiere è cambiato meno di altri, ma non c’è più nessuno che possa ospitarmi, a Kreuzberg. Se volessi dormirci, oggi, dovrei pagare dai 40 ai 100 euro al giorno, in un albergo o nell’appartamento di un palazzo restaurato.


Palazzo della repubblica durante lo smantellamento
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Potsdamer Platz 1998
Dappertutto, all’aperto o al chiuso, la città assomigliava a un cantiere. Bastava fare un giro con la S-Bahn, una metropolitana a cielo aperto, per vedere le gru che assediavano la città, come guerrieri di metallo. Si lavorava sopra e sotto. Anche le stazioni della metropolitana venivano restaurate o completamente rinnovate. Ogni stazione, a Berlino, ha un proprio carattere: pilastri verdi di metallo laccato, piastrelle dalle geometrie messicane, rilievi in cornice di marmo. Spesso bisognava scendere a una stazione e proseguire in autobus. Dovunque si camminasse, bisognava stringersi contro i muri, aggirare gli squarci aperti. La città era piena di ferite, si apriva da tutte le parti, demolizioni, spostamenti, ricostruzioni. La ferita più grande era alla Potsdamer Platz: l’Hotel Esplanade doveva essere spostato dall’antica sede, disturbava la realizzazione del progetto, le fondamenta dei grattacieli futuri sprofondavano sotto terra, avevano chiamato dei sommozzatori che lavoravano nell’acqua. Lo squarcio era brulicante di vita, le luci erano accese ventiquattro ore su ventiquattro. Una città cresceva al contrario, sotto terra, muratori, carpentieri, ingegneri, elettricisti, collaboravano notte e giorno, per finire nei tempi fissati. Chi si sporgeva dall’alto della balaustra, era preso da una vertigine, tanto in basso scendevano le fondamenta. Sembrava un’immensa città sotterranea, una seconda Berlino, cresciuta sotto la vecchia, per annientarla.
Molti berlinesi non amano la Potsdamer Platz, così com’è oggi, con i suoi grattacieli leggeri, aerei, lontani dalla vita e senza memoria. La piazza ha un’aria artificiale, posticcia, sembra costruita per nascondere qualcosa. La realtà appartiene ai quartieri abitati, alla vita quotidiana, dove l’antico e il moderno si mescolano, dove le città si rinnovano e conservano qualcosa del passato. Alla Potsdamer non si abita: si lavora, si guarda, si compra.
Negli anni Ottanta la piazza era una terra di nessuno dove crescevano solo erbacce. Nel 1985, frequentavo la Stadtbibliothek, a Berlino ovest. La caffetteria aveva un’intera parete di vetro e si affacciava sul campo desolato della Potsdamer Platz. Non so che cosa pensassero gli altri davanti a quella distesa vuota. Sicuramente metteva tristezza. Il muro non si vedeva bene, da quel punto; si mimetizzava dietro l’erba alta, si vedeva solo la corona delle case che ricompariva lontana, all’altro capo del deserto. Si percepiva soprattutto il vuoto, l’assenza di quello che esisteva un tempo. Si pensava alla guerra, più che al muro: alla potenza delle armi moderne, a quanto sia semplice radere al suolo ciò che è stato costruito con cura, arte, impegno, entusiasmo, da altri esseri umani. Nessun racconto, neppure le testimonianze dirette che ho avuto modo di sentire, mi hanno dato una percezione così chiara di cosa sia la guerra. Non solo la paura, non solo la minaccia della morte o della violenza, ma la perdita del proprio mondo, dello spazio riconoscibile e stabile in cui s’inscrive l’esistenza. Nella biblioteca vendevano foto della piazza che risalivano agli anni Trenta. Ne usavo una come segnalibro. La conoscevo a memoria. Non m'interessavano gli edifici progettati da famosi architetti, ma le persone che ci vivevano, come attraversavano la piazza o cambiavano tram, indaffarate, inconsapevoli, forse colpevoli. Guardavo i negozi più quotidiani, quelli che si conoscono sempre: una farmacia, una tabaccheria. Cercavo quei particolari che rappresentavano la struttura permanente della vita quotidiana. Attraversare una distesa desolata al centro di una città, sentire l’assenza delle persone che ci hanno vissuto, non è come guardare una foto di quella stessa distesa o leggere un articolo che ne parla. Il primo caso è un’esperienza della guerra, il secondo è un ricordo organizzato, è storiografia. È possibile, ma molto difficile, trasformare la storiografia in esperienza.
Tutti dicevano: “Berlino è un cantiere.” La città sembrava presa dal furore: un’ansia di guarire le sue ferite, in particolare quelle della divisione, di trasformare il passato: si è cancellato il passato della DDR per riesumare quello imperiale, si è demolito un palazzo che appartiene alla storia di tanti per ricostruirne un altro, posticcio, che più nessuno ricorda. È difficile afferrare pienamente il senso di queste cancellazioni. Molte voci di critica si sono levate, Berlino ha in sé molte culture, fortunatamente: per ogni atto di cancellazione si sono aperti dei conflitti, ci sono state discussioni. Il Muro, il Palazzo della Repubblica, e con loro altri edifici, non raccontano solo la storia della guerra fredda e del comunismo, ma anche quella del nazismo e della II Guerra Mondiale. L’oblio è indispensabile alla nascita del nuovo, ma sono i ricordi delle esperienze passate che ci avvertono dei pericoli.
Alla cerimonia d'inaugurazione della Potsdamer Platz avevano appeso, sui grattacieli dei nuovi palazzi, dei teli di vinile su cui erano stampate delle immagini, tratte dalla storia di Berlino. Era una visione di grande effetto scenografico. All’inaugurazione i teli dovevano crollare a terra, le foto ricordo scomparivano e al loro posto emergevano gli edifici appena nati. La storia cadeva, per far posto al futuro. La città era pronta a dimenticare, per continuare a vivere.
Le ferite che Berlino esibiva erano terribili, ma indicavano agli essere umani, con evidenza, cosa non si doveva fare. Ora possiamo passeggiare sul Muro, spostarci a nostro piacere in ogni parte della città, frequentare persone dell’Est, ma è bene non dimenticare, per quanto sia triste, quello che è accaduto. Pochi sarebbero d’accordo con me, eppure avrei preferito che la Potsdamer Platz restasse com’era, un luogo della memoria, una terra piatta e deserta che poteva ricordare le ferite passate, come una tomba di marmo. Su questa terra desolata lo sguardo avrebbe potuto riposare in pace, fermarsi consapevole sul vuoto che si era aperto, proprio nel cuore della città. Qui avremmo potuto ricordare la guerra e tutti i suoi morti. Non solo la guerra fredda. Ogni guerra.

L'area deserta, come appariva nel 2009, ultimata la distruzione del palazzo.
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Sophienfriedhof 2002
Alcune delle riprese più spettacolari, nella storia del muro, provengono dalla Bernauer Strasse. Qui la divisione ha avuto un carattere duplice: drammatico, e luttuoso da un lato, bizzarro e stravagante dall’altro. Il settore è fondamentalmente indivisibile per le sue caratteristiche urbane. L’ostinazione burocratica, comune a entrambe le parti, con cui si sono mantenuti i confini, ha qualcosa di assurdo, se non di comico. La linea di separazione passava, infatti, davanti alle case che si affacciavano sulla Bernauer Strasse. Le facciate appartenevano all’Est, ma il marciapiede, delle stesse case, apparteneva all’Ovest. Si comprese presto, alla chiusura del settore sovietico, che la zona sarebbe diventata un punto privilegiato di fuga. Bastava entrare dall’Est in una casa della Bernauer e uscirne all’Ovest, saltando dalla finestra. Inutilmente furono evacuati e chiusi gli appartamenti al piano terra. Ci si buttava anche dai piani superiori, atterrando sui teli che i vigili del fuoco stendevano sotto, nella zona ovest. Ci si buttava a rischio della vita e molte persone sono morte nel tentativo di passare dall’altra parte. Divenne famosa la vicenda di una vecchia signora, una certa Frieda Schulze. Mentre stava per prendere il volo da una finestra del secondo piano e planare dolcemente su un lenzuolo, fu afferrata per le braccia da due guardie dell’Est. Per un attimo rimase sospesa nel vuoto, spenzolando dalla finestra, poi un vigile dell’Ovest salito sulla finestra del primo piano, riuscì ad afferrarla per una gamba. Per qualche secondo, la vecchietta rimase in equilibrio, contesa fra le forze che combattevano per il suo corpo: le guardie, che la tiravano verso l’alto, i vigili, che la tiravano verso il basso. Poi, per fortuna, le guardie lasciarono la presa e lei cadde sul telo, senza farsi troppo male, insomma atterrò all’Ovest. Le vicende della Bernauer indussero il governo a prendere misure drastiche. Gli abitanti furono evacuati, le finestre murate, sui tetti si stese il filo spinato. Più tardi tutte le case furono demolite e restò solo il muro del primo piano, con finestre e portoni sbarrati.
Alla Bernauer Strasse appartiene anche la chiesa della Riconciliazione, distrutta dalla guerra e ricostruita negli anni Cinquanta. Rimase incastrata in mezzo al Muro, nella striscia della morte, dove pattugliavano le sentinelle. Era visibile da chiunque facesse una passeggiata in zona. La fecero saltare in aria nel 1985. Negli anni precedenti il muro era stato ricostruito con pannelli di cemento armato. La parete a ovest doveva essere uniforme. Gli edifici intrappolati nel Muro, o deformati dalla sua espansione, furono demoliti, ogni traccia di distruzione fu rimossa. Il nuovo muro doveva essere liscio, bianco, asettico, non lasciare trapelare nulla, di quant'era accaduto.
Il cimitero Sophienfriedhof confinava con la Bernauer Strasse. Il muro del cimitero coincideva esattamente con la linea di separazione, era una parte del Muro. Come tutti sanno, il Muro era doppio. C’era un muro esterno, che separava dall’Ovest, e un muro di sicurezza interno, che impediva di avvicinarsi al confine. Fra i due muri si doveva costruire una strada asfaltata e piantare dei lampioni. La striscia di sicurezza finì per occupare una parte del cimitero. Cosa fare dei morti che si trovavano nella striscia? Non si poteva certo costruire una strada sui morti, marciare sulle tombe, ficcare in una bara un palo della luce. Oppure sì? Nei primi anni del Muro il Sophienfriedhof era ancora frequentato, persino gli abitanti dell’Ovest avevano ottenuto dei permessi speciali, per visitare i propri morti. Ci sarebbero state delle proteste se le tombe fossero rimaste intrappolate fra i due muri. Le tombe furono rimosse nel 1967. Anche i morti della Bernauer Strasse, come prima gli abitanti, furono evacuati.
Nel 2002 feci una passeggiata per il cimitero. Era il Venerdì Santo, un giorno freddo, senza sole. Il cimitero era vuoto, ma non era triste. Era pieno di alberi secolari e fiori. Proseguivo a caso, lungo i sentieri tortuosi che si snodano in mezzo alle lapidi. Mi fermai davanti a una tomba abbandonata: sulla lapide storta, invasa dalle piante selvatiche, erano stati attaccati due adesivi, uno giallo e uno rosso. “Attenzione! Pericolo! Lapide malferma! I parenti sono pregati di rivolgersi all’ufficio,” diceva quello rosso. E quello giallo concludeva: “Fra poco tempo la lapide verrà rimossa o posata a terra.” L’abitante della tomba era morto nel 1958, prima della costruzione del Muro. Le tombe con i “bollini” erano tantissime e raccontavano la stessa storia: i parenti del morto erano rimasti nel settore occidentale, la tomba era rimasta nel settore russo. Per qualche tempo il governo aveva rilasciato dei permessi di visita, poi aveva impedito ogni accesso al cimitero.  Erano passati decenni, i parenti si erano trasferiti altrove, forse erano morti, e la tomba era stata abbandonata. Una storia come tante.  
In fondo al cimitero, la striscia della morte, ancora riconoscibile, era divisa in due parti. Da un lato c’era il memoriale, il monumento alle vittime, la torre di osservazione e il centro di documentazione. Dall’altro c’era uno spiazzo incolto, disordinato e caotico, simile a una discarica. Le lapidi tombali, rimosse dall’amministrazione del cimitero, erano accatastate alla rinfusa, sporche di terra. Formavano un’immensa montagna di marmo che ricordava il giorno del giudizio, quando le tombe si aprono e i morti volano in cielo. Tutt’intorno erba secca, stracci, tubi, pezzi di rete metallica, pannelli del Muro sparpagliati sul terreno. La comunità del cimitero avrebbe voluto riavere il terreno che il regime gli aveva sottratto nel 1967. Era contraria alla decisione ufficiale di conservare il Muro e farne un monumento nazionale. Con un colpo di mano, aveva smontato i pannelli, in segno di protesta, e li aveva lasciati sul terreno, in attesa che le autorità decidessero diversamente. Sulla destra, il Muro era già ordinato in ricordo, adatto a essere visitato dai turisti o studiato sui libri. Sulla sinistra, era ancora qualcosa di vivo, un luogo di dolore, di parenti dispersi, di tombe da sistemare, di lapidi rimosse. Un luogo di conflitti: cosa ricordare, quale passato conservare, cosa distruggere?
Oggi il Sophienfriedhof è tornato ad essere un cimitero ordinato, le lapidi ammassate in fondo sono state portate via, non so dove. I pannelli, tolti dal Muro per protesta, sono accatastati ordinatamente sul terreno. Dovrebbero tornare al loro posto per ricordarci com’era divisa un tempo la città. Alla comunità del cimitero è stato assegnato un nuovo terreno, per compensare quello perduto. La memoria è riuscita nella sua operazione difficile: dare un ordine al luogo. Come un custode del cimitero, ha rimosso le lapidi malferme, curato il giardino, piantato nuove lapidi. I morti evacuati, le tombe abbandonate, le lapidi accatastate; la comunità religiosa, che voleva salvare un passato, il senato, che voleva salvarne un altro: che tutto riposi in pace, forse è meglio così. Lasciamo che i turisti leggano sulle guide la versione semplificata, prendano il sole, facciano foto, sorridano.
Il Muro è caduto, ma lungo la Bernauer, resta un altro muro, che non attira più i giornalisti. È la solita linea di confine, quella che attraversa tutte le città del mondo. Da una parte il quartiere di Prenzlauerberg, con le case antiche, accuratamente restaurate, le facciate liberty o neoclassiche, mille caffè e ristoranti, gli affitti alti, parchi curati e sicuri, buone scuole; dall’altra parte il quartiere di Wedding, evitato dai turisti, coi condomini anonimi degli anni Settanta, gli affitti da pensione o da sussidio, gli stranieri disoccupati, vita sociale scarsa, di notte strade deserte e poco sicure, scuole difficili. C’è solo una strada che separa i due quartieri, la Bernauer. E un muro invisibile.

sabato 7 maggio 2011

RICORDI NEL CONTAINER



di Natascia Ancarani


A mio padre

Quando mi dissero, qualche anno fa, che avevano venduto la vecchia sezione del partito comunista di Conventello, il paese dove sono nata, chiesi subito:
«E i libri della biblioteca, che fine hanno fatto?»
«Li hanno messi in un container.»
«Dei libri in un container?»
«Sono chiusi e ben protetti. Li porteranno nella nuova sezione, appena sarà pronta.»











Gruppo dei pionieri festeggiano la ricorrenza del 25 aprile nel 1961. 



IL PAESE
Tre frazioni, nel comune di Ravenna: Conventello, Grattacoppa, Savarna; un tempo separate dai campi, oggi sempre più vicine fino a diventare un unico paese. Lentamente le nuove costruzioni hanno riempito i vuoti fra una frazione e l’altra. Case di proprietà, spesso costruite con i risparmi di una vita, con il proprio lavoro e l’aiuto di un muratore. Villette ben curate, facciate rimesse a nuovo, con l’intonaco fresco, i colori vivaci, intorno un pezzo di terra, un giardino o un orto. Le case coloniche, molte dell’inizio del Novecento, sono state ristrutturate o sostituite da case moderne, che spuntano davanti o di fronte alle antiche, nello stesso cortile. Un lungo tratto di pista ciclabile attraversa il paese, gli anziani la percorrono più spesso dei giovani; un bel lastricato ha ricoperto da qualche anno la piazza centrale. Un paese ordinato, dove la vita scorre decorosa, e che comunica, a chi non conosce le sue origini, un’idea di benessere diffuso. 
Nel dopoguerra era un paese povero, molti proprietari terrieri abitavano in città e si servivano di un fattore che curava i loro affari. Era abitato in gran parte da contadini e operai. Molti braccianti si erano costituiti in una grande cooperativa agricola, ora sciolta. Più tardi, sull’onda della scolarizzazione di massa, a partire dagli anni Sessanta, la struttura sociale del paese si è modificata, molti hanno preso un diploma, ci sono geometri, ragionieri, commessi, maestri, impiegati. Pochi i laureati. Nell’ultimo trentennio il paese ha acquisito tutti i servizi indispensabili, per cui prima era necessario spostarsi nei paesi limitrofi: una farmacia, un ufficio postale, una banca. Benché il tasso di scolarizzazione sia cresciuto e la popolazione sia aumentata, non esiste una biblioteca pubblica, neppure piccola.
Si intravede il paese come appariva nel 1958.
Si andava a ballare raggiungendo in bicicletta Alfonsine a circa 10 chilometri

Il paese ha più di duemila elettori e il partito democratico ha percentuali superiori al sessanta per cento. Negli anni Settanta il partito comunista aveva raggiunto percentuali ancora più alte, superiori al settanta per cento. Esistevano tre sezioni del partito, una per ogni frazione. In sezione, accanto alle riunioni di partito, si svolgevano feste, assemblee pubbliche sui problemi del paese e il bar era abitualmente frequentato da chi voleva leggere il giornale o giocare a carte. Era un patrimonio immobiliare di discrete dimensioni, creato nel dopoguerra da iscritti e simpatizzanti del partito. È stato venduto recentemente, nei primi anni del nuovo secolo. Dalle risorse ricavate è nato, sul sito in cui sorgeva il vecchio Teatro, un palazzo a più piani, una costruzione insolita, unica nel paese. Con i suoi materiali nuovi, il metallo della struttura e la vetrata al piano terra, s'isola dal contesto e si proietta in un futuro immaginario. Nel cuore dell’edificio, all’entrata principale, dove s'imbocca la scala che porta ai piani superiori, chiuso dalla vetrata esterna, quasi conservato in una teca come una reliquia, è rimasto il vecchio proiettore del Teatro, accuratamente ripulito e lucidato. Una macchina alta più di un uomo, oggi inservibile, che ha raccontato innumerevoli film al paese per quasi cinquant’anni. Al piano terra ci sono un bar e una banca, al secondo piano la sezione del partito democratico.
Alcuni dei libri scampati alla distruzione
La nuova sezione, che dovrebbe ospitare i vecchi libri, esiste dunque da qualche anno, dal 2007. Ha una grande sala, per le riunioni, con le sedie rivestite in panno rosso, un ufficio, e persino un nuovo proiettore che potrebbe essere usato per i cineforum. In una saletta adiacente non mancherebbe lo spazio, per mettere degli scaffali e neppure le risorse per comprarli, ma i libri sono ancora nel container, sul terreno che il partito usa per organizzare le feste del partito democratico. In realtà, nessuna, delle persone intervistate, ha manifestato indifferenza, insensibilità o noncuranza. I libri, almeno quelli che erano in buono stato, sono stati impacchettati e conservati, sono stati proposti alla scuola elementare e alla biblioteca pubblica di un paese vicino, ma queste, disponendo di spazi limitati, li hanno rifiutati. Il problema è un altro. La piccola biblioteca che il partito aveva fondato negli anni Cinquanta era già inutilizzata negli anni Settanta, forse anche oggi sarebbero pochi gli utenti di una biblioteca pubblica. La sua conservazione servirebbe a documentare la storia del partito locale, ma difficilmente potrebbe essere un servizio alla comunità, com'era stata concepita ai suoi inizi. Anche nel caso in cui si aggiungessero nuovi libri. 




Frequentavo da poco il liceo, negli anni Settanta, quando venni a sapere che il partito, nel dopoguerra, aveva fondato una biblioteca. Andai a vedere cosa ne restava. Al secondo piano della vecchia sezione di Conventello c’era una saletta per le riunioni. Intorno c’erano degli scaffali e una libreria solida, di legno buono, con le vetrine, costruita da una cooperativa di falegnami, dove potevano essere conservati, protetti dalla polvere, centinaia di libri. I libri erano ormai accatastati in modo disordinato, dove capitava, spesso coperti di polvere, mescolati a opuscoli e giornali. Mi aspettavo di trovare discorsi di Togliatti, opere di Marx o Lenin, invece la linea degli acquisti, come vedremo, era più vasta e aperta di quanto ci si potrebbe aspettare. I libri erano stati attentamente catalogati e c’erano schede del prestito, come in una normale biblioteca. Difficile dire quanti fossero. Molti erano andati persi. Da quando il prestito non funzionava, chiunque passasse dalla saletta, poteva portarne a casa qualcuno senza restituirlo. Era una piccola biblioteca, forse un migliaio di libri, ma era un progetto ardito e ammirevole, in un paese dove non arrivavano neppure i quotidiani e pochissimi tenevano in casa un libro, mettere a disposizione di ciascuna famiglia un paio di libri al mese. 




FONDAZIONE DELLA BIBLIOTECA E COSTRUZIONE DEL TEATRO



Il fervore del dopoguerra, quando riprese la libertà di espressione dopo anni di silenzio obbligato, toccò anche le piccole frazioni della zona. La libera partecipazione dei cittadini procurò risorse insperate. La comunità, raccolta attorno al polo maggioritario del partito comunista e a pochi altri partiti, iniziò un grande sforzo di ricostruzione, materiale e spirituale. Si mobilitò per chiedere case popolari, l’asilo e il pozzo artesiano. Si dotò di sedi per le riunioni dei partiti. Costruì, con la partecipazione volontaria dei cittadini, persino una strada che unì due frazioni, anticipando l’intervento del comune che si faceva attendere.













Con le speranze di miglioramento sociale, che si aprirono nel dopoguerra, la comunità mise al centro del proprio sforzo ricostruttivo anche la crescita culturale del paese. I promotori che si mossero in questa direzione furono il partito comunista, con la creazione della biblioteca e la diffusione porta a porta del quotidiano l’Unità, e l’ANPI, con la costruzione del Teatro. Come racconta Angelo, uno dei fondatori della biblioteca: «Allora non c’era niente, non c’era un’edicola, dove comprare il giornale.» L’unica fonte d'informazione era la radio e non tutti l’avevano. I quotidiani non arrivavano al paese, bisognava andare a prenderli in bicicletta ad Alfonsine, un paese a una decina di chilometri. Quelli che volevano leggere, e a molti sembrava importante “conoscere”, non sapevano dove trovare dei libri. Qualcuno se li faceva prestare dai pochi che ne avevano. 
Il partito comunista in quegli anni era un partito rigido, che guardava al modello sovietico. L’iscrizione al partito era attentamente controllata, due compagni dovevano garantire per il nuovo iscritto. Tutti gli iscritti dovevano partecipare alla cellula una volta alla settimana, si faceva l’appello, come a scuola, e chi era assente per più di tre volte veniva richiamato. Ci furono diverse espulsioni dal partito, venivano allontanati gli iscritti che avevano avuto comportamenti disonesti o non erano fedeli alla linea. Come ricorda Angelo, lo slogan di quegli anni era: dobbiamo bolscevizzarsi. «Si chiedeva disciplina, ma anche senso di responsabilità» ricorda Antonio con un accento nostalgico. I bambini, oltre alla frequenza scolastica incoraggiata dalle famiglie con maggiore convinzione del passato, si riunivano in gruppi di pionieri, secondo il modello sovietico. Ricevevano, nel contesto di attività ricreative, un’istruzione complementare: visita alle aziende agricole, con la conoscenza del modello cooperativo, celebrazione del 25 aprile, riordino della biblioteca. Anche la formazione dei dirigenti locali di partito, in quegli anni, veniva seguita con particolare attenzione. Furono organizzati corsi di formazione dove si studiavano gli autori comunisti, soprattutto Marx e Lenin. Li frequentavano operai e contadini che avevano solo la licenza elementare. Dovevano conoscere e comprendere l’ideologia del partito e diffonderla fra gli abitanti del paese. Era un contesto di formazione ideologica chiusa, quasi soffocante, che contribuì però ad ampliare le conoscenze di tutti. Si riteneva che la conoscenza potesse avere di per sé un significato progressivo, potesse produrre, come si teorizzava allora, una coscienza critica e vigile, che avrebbe favorito la crescita del partito, ostacolando quella degli avversari politici. Fu quest'ideale, che oggi consideriamo con più disincanto, a produrre aperture impensabili, a generare gli effetti più interessanti, ben oltre gli obiettivi immediati della propaganda e della formazione ideologica. La distribuzione regolare del quotidiano l’Unità, porta a porta, ha aiutato gli abitanti del paese a leggere ogni giorno, a informarsi, in anni in cui i telegiornali televisivi non era ancora entrati nelle case, su quanto accadeva in Italia e nel mondo. Un’abitudine, quella della lettura quotidiana del giornale, che le vecchie generazioni del paese non hanno mai perso. La formazione della biblioteca e la costruzione del teatro furono progetti che avevano ben poco d'ideologico, guardavano alla formazione complessiva di una comunità composita, plurale, che voleva crescere: «Volevamo divulgare la cultura fra gli ignoranti» racconta Angelo scherzando. «Prima di fondare la biblioteca avevo letto solo un paio di libri, che mi avevano prestato.» 





L’apertura della biblioteca alla comunità non fu una cosa ovvia. Si discusse sulla funzione della biblioteca: se dovesse essere un centro di documentazione per la formazione dei dirigenti locali o uno strumento a disposizione di tutta la comunità. In quegli anni c’era una forte ostilità nei confronti delle forze politiche alternative. Molti repubblicani e democristiani, che oggi organizzano le feste del PD insieme con i vecchi comunisti, erano considerati veri nemici. Non tutti comprendevano perchè si dovessero sprecare le risorse del partito per la formazione di chi apparteneva all'ideologia opposta. Prevalse però la linea dell’apertura e la biblioteca fu aperta all’intero paese, chiunque poteva frequentarla. Fu istituito un prestito e furono decise delle serate di apertura. Il prestito, racconta Angelo, non era molto frequentato, ma a sentire altri nel paese, restano ben vivi i ricordi di molte letture. Si ricordano con precisione titoli, autori, temi. Si ricordano le fredde sere invernali, vuote d’eventi e d'incontri, quand'era una consolazione restare in compagnia di un libro da leggere, spesso al lume di petrolio. Angelo, così dice, i libri li sfogliava appena, e poi li catalogava. Ne leggeva pochi. Il suo mestiere di falegname gli lasciava poco tempo. Ora però, a ottantasei anni, è diventato un lettore assiduo e forse la sua vecchiaia sarebbe più solitaria e meno ricca, se gli anni di attività nel partito, non avessero gettato, come mi piace pensare, il seme della lettura.



La decisione di fondare la biblioteca di Conventello e di aprirla al pubblico venne presa dai dirigenti locali, ma i libri venivano scelti dalla federazione di Ravenna, forse perché si riteneva che i dirigenti provinciali fossero più informati e potessero compiere scelte sicure, fedeli alla linea ideologica. Secondo Angelo gli scrittori scelti “guardavano” a sinistra. Le case editrici erano tre, era in vigore un abbonamento ad alcune collane e ogni mese arrivava un certo numero di libri, case editrici sicuramente caratterizzate, all’epoca, dall’impegno civile: Editori Riuniti ovviamente, Einaudi e Feltrinelli, C’erano testi politici, Angelo ricorda anche le opere di Stalin: «Erano tanti volumi. C’erano tutti i discorsi che aveva fatto. Non li ha mai letti nessuno.»
I libri citati più frequentemente dagli antichi lettori della biblioteca non sono saggi politici o opere teoriche. Sono biografie e testimonianze, in genere d'ispirazione politica: Nadežda Krupskaja, La mia vita con Lenin, Giovanni Germanetto, Memorie di un barbiere, un testo oggi introvabile, sull’opposizione politica contro il fascismo, pubblicato in Francia all’inizio degli anni Trenta. E soprattutto romanzi: Pavese, Moravia, Pratolini, Balzac. «Mi avvicinavo ai libri per l’analisi dei sentimenti» racconta Antonio. «Io non sono un intellettuale, nella mia formazione, ma penso di conoscere i sentimenti.» Erano presenti autori come Melville, Conrad, persino Shakespeare con il Coriolano. Dell'Universale Feltrinelli si scelse di avere anche la Serie scientifica, una collana dov'erano pubblicate opere di divulgazione, in genere di matrice anglosassone, su teorie scientifiche, dalla biologia alla fisica, fino all’archeologia. Un tentativo di formazione che andava ben oltre i confini ideologici della linea di partito. 



Il Teatro, così veniva chiamato in paese, fu un prodotto dell’intera collettività del dopoguerra. Il promotore dell’impresa, come già detto, fu l’ANPI che comprendeva tutti i partiti del paese. I soldi furono raccolti famiglia per famiglia. L’attrazione maggiore del Teatro era rappresentata, ovviamente, dalla proiezione dei film, ma questo non ne fece mai un semplice cinema, se non forse negli ultimissimi tempi. Era un teatro di circa 500 posti, grande per i tempi, un pullman portava altri spettatori dai paesi vicini nei giorni di festa. Aveva un buon palcoscenico, dove in genere si rappresentavano commedie dialettali. Le sedie si potevano togliere e si potevano organizzare delle feste in pieno inverno, quando diventava impossibile farlo all’aperto. I film più importanti, quelli che avevano un valore politico o culturale, venivano presentati agli spettatori e a volte erano seguiti da un dibattito. Grazie alle presentazioni, ricorda Elisabetta, film difficili da capire, come quelli di Fellini o Pasolini, diventavano più comprensibili. Il teatro era anche luogo di grandi assemblee, quelle che non avevano un colore politico ma rappresentavano la comunità intera, quando, ad esempio, si ospitava un dirigente del movimento di liberazione, per celebrare il 25 aprile. 

La messa a norma dei teatri e di strutture simili, verso la fine degli anni Novanta, è avvenuta in un momento di crisi, di calo della partecipazione. Le nuove norme di sicurezza, in sé giustificate, hanno però dato il colpo di grazia a molte strutture collettive che in Romagna erano state fondate dalla popolazione. Le spese ingenti per la messa a norma del Teatro di Savarna non erano sostenibili, a fronte di entrate sempre più esigue per il calo degli spettatori. Il sostegno delle istituzioni pubbliche, per salvare questo o altri teatri disseminati sul territorio, è stato assente o insufficiente. La chiusura del Teatro di Savarna diventò una necessità. 









TRASFORMAZIONI
La biblioteca, fondata all’inizio degli anni Cinquanta, risultava ancora attiva alla metà degli anni Sessanta, ma i libri giacevano in stato di abbandono già alla metà degli anni Settanta. La sua natura cambiò lentamente, nel corso degli anni Sessanta. Non c’erano più serate di apertura al pubblico, i libri si potevano avere solo quand'era indetta una riunione di partito, e questo restringeva necessariamente il numero degli utenti. Inoltre, in quegli stessi anni, il bar della sezione si era dotato di un televisore, come avevano fatto altri bar nel paese e la biblioteca morì, in un certo senso, di morte naturale, sostituita dalla televisione. Invece di restare in casa a leggere un libro si preferiva raggiungere il bar e guardare uno dei pochi programmi che andavano in onda. La visione era ancora collettiva, poteva stimolare il confronto e il dibattito, ma ben presto il televisore entrò nelle case, isolando sempre di più le singole famiglie. 
Raccolta della paglia per finanziare le iniziative del partito comunista

Le tre sezioni, per mantenersi attive, dovevano essere ristrutturate e adeguate alle attuali norme di sicurezza. I due bar erano ormai scarsamente frequentati, diventava sempre più difficile trovare dei gestori e il partito doveva sostenere una parte delle spese, luce e riscaldamento, per permettere al gestore di guadagnare qualcosa. Inoltre la partecipazione politica, a partire dagli anni Ottanta, era in calo continuo e risultava ormai inutile mantenere tre sedi aperte. 
Il teatro, che la comunità ha utilizzato per un cinquantennio, ha resistito più a lungo, soprattutto in una delle sue funzioni, il cinema. Le ultime proiezioni risalgono alla fine degli anni Novanta, sempre più rare nell’arco della settimana, fino a una sola proiezione la domenica. Negli ultimi tempi il teatro aveva perdite di milioni all’anno, sopravviveva grazie a quello che aveva accumulato negli anni precedenti e incombevano le spese per la messa a norma. 
Si prese quindi la decisione di smantellare e vendere il patrimonio accumulato dalla comunità. Solo in questo modo, trasformando il vecchio in nuovo, si poteva sperare di salvare una parte del patrimonio e costituire altre strutture che conservassero, almeno in parte, alcune delle antiche funzioni. I tre circoli del partito furono chiusi e uniti in un’unica sezione. Dove sorgeva la sezione di Conventello hanno costruito delle villette a schiera, nei locali dell'ex sezione di Savarna c’è ora una pizzeria. Il teatro fu abbattuto e al suo posto è stato innalzato il nuovo palazzo di vetro e metallo, con il vecchio proiettore incastonato nelle sue radici. È stato comprato un terreno nel paese, dove fare la festa del PD. Sul terreno, insieme ad altri materiali, resti delle sezioni dismesse, forse teli e tubolari per organizzare la festa, posa ora il container con i pochi libri rimasti della biblioteca.
Il processo di riconversione è stato portato avanti con disincanto e senso della realtà, ci sono state assemblee turbolente, ma le decisioni prese, alla fine, sono state condivise dalla maggior parte della collettività. Primo, uno degli ultimi organizzatori del teatro e attuale segretario del PD, pur convinto che la riconversione del patrimonio fosse l’unico modo per salvare le risorse che la comunità aveva costruito con impegno e perseveranza, si è allontano da Savarna per qualche giorno, quando hanno distrutto il teatro. Quand'è tornato il teatro era già scomparso. «Macinato come farina, in poco tempo. Era diventato polvere» dice con amarezza. 
Raccolta della paglia per finanziare le iniziative del partito, compreso l'acquisto dei libri.
Da notare i due bambini che "si vestono" con la bandiera rossa

Cosa farne oggi, di questa storia lontana nel tempo, di questo passato tanto inattuale da doverlo chiudere in un container, in attesa di una collocazione futura? Perchè parlare di una piccola biblioteca di partito che avrà avuto, a essere ottimisti, vent'anni di attività, di libri che sono stati accantonati, non per disprezzo della cultura, ma semplicemente perchè nessuno li voleva leggere? Alcuni del paese, nati nel corso degli anni Settanta, abbastanza giovani da ignorare quelle esperienze, si sono rallegrati, nel guardare alcune foto degli anni Cinquanta, di appartenere a un altro tempo, di vivere in quest'Italia moderna. Il benessere, nonostante la crisi in corso, si tocca con mano, se si confronta il presente con le immagini del passato: le ragazze che facevano dieci chilometri in bicicletta per andare a ballare, i giornali distribuiti porta a porta, perché non arrivavano al paese, le case decadenti, i vestiti semplici dei bambini, spesso dismessi dai fratelli più grandi o ereditati da qualche parente. 
A parte i pionieri, a parte i modelli importati dall'URSS, questo passato forse ha ancora qualcosa da dirci, su come una comunità cresce culturalmente. Ci racconta anche qualcosa sulla nuova miseria culturale dell'Italia moderna, sulla sua perdita di sorgenti ideali, una miseria che non è necessariamente il frutto del maggiore benessere. Non c’è niente di necessario nel binomio benessere-ignoranza, non è un’ovvietà, è anzi un effetto perverso, che con l’aumento della scolarizzazione diminuisca la lettura. Ci racconta di una realtà storica dal corso potente, che la piccola comunità, con tutta la buona volontà, non ha potuto contrastare. Racconta di un’Italia moderna che abbandona i suoi libri, lascia distruggere i suoi teatri, riduce i luoghi di aggregazione, chiude i cinema, isola le persone in casa, nel peggiore dei casi davanti a un televisore, davanti a programmi dal livello culturale sempre più scadente, nel migliore dei casi davanti a un computer che comunica con il mondo. 
In un paese vicino, a Mezzano, dove si è chiuso un altro teatro, nato dalla volontà collettiva, da alcuni anni è stata fondata una biblioteca. Non sono state le istituzioni a farlo. Il Comune ha concesso gli spazi, ma è l’associazione culturale Percorsi, con l’impegno dei propri volontari, che tiene aperta la biblioteca. I libri nel container sono stati conservati. Nessuno ha pensato di gettarlo via, quel passato. Sono chiusi e protetti. Vien da dire: troppo chiusi e protetti. Sarebbe meglio tirarli fuori questi ricordi, tirar fuori i libri, appendere in sezione le foto del passato, fare circolare nuovamente nella comunità il passato chiuso nel container. La conoscenza del passato, come la conoscenza di altri mondi, ha spesso una funzione salutare di confronto. I limiti e i difetti del nostro piccolo mondo, moderno e progressivo quanto si vuole, risaltano meglio. Il benessere è cresciuto, eppure si ha l’impressione che i vecchi del paese, cresciuti a contatto continuo con la propria comunità, con qualche lettura di Balzac, con le biografie degli uomini che ammiravano, sappiano raccontare bene la propria esperienza, forse meglio dei giovani del paese che si rallegrano di essere nati in una nuova epoca. 
Se il teatro è andato perso, forse non basta rallegrarsi di avere salvato il patrimonio. Oggigiorno film splendidi passano velocemente, o addirittura non passano, dai circuiti commerciali. Quanti hanno visto il film recente L’uomo che verrà sulla strage di Marzabotto? Quante possibilità ci sono di rivederlo in televisione? Si potrebbero, allora, aprire anche le sale che ci sono rimaste, soprattutto quando esiste un nuovo proiettore. Si possono aggirare i permessi, fare tessere associative, all’ANPI o all’ARCI, che permettano a tutti quelli che ancora lo vogliono, anche se pochi, la visione di un bel film. Si possono presentare i film, come un tempo, aprire un dibattito, in modo che la collettività si ritrovi a discuterne insieme. In modo che ognuno esca da quei container di metallo, carichi di memorie inespresse, a cui assomigliano, sempre di più, le vite dei singoli. 
Si ringraziano per le preziose informazioni, le foto, la calorosa partecipazione alla ricerca: Elisabetta Baruzzi, Eliseo Dalla Vecchia, Angelo Ghinassi, Bruna Ghinassi, Fabrizio Matteucci, Giorgio Masotti, Antonio Morigi, Primo Pezzi. Della linea interpretativa data all’intera vicenda è responsabile la sola autrice. Le persone citate non devono necessariamente condividerla.