sabato 21 maggio 2011

BERLINO. GUIDA ALLA CITTA' INVISIBILE


Natascia Ancarani

Dovrebbe essere così: le città restano, gli uomini passano. Le opere umane costituiscono, di solito, un contesto durevole. Danno a ogni vita, con il suo scorrere di sentimenti e situazioni, una qualche stabilità. La scalinata di un duomo, il profilo di una torre conservano la nostra identità nel divenire e trattengono le figure del passato: ci aiutano a ricordare chi abbiamo incontrato e chi siamo stati.
Immaginiamo di tornare in un luogo familiare, dopo anni di assenza, e di ritrovarlo cambiato, tanto da non riconoscerlo: la scuola, dove abbiamo vissuto le prime amicizie, non esiste più, due antichi palazzi sono stati abbattuti, da una parte c’è il vuoto, dall’altra un edificio moderno. Non sarebbe solo il luogo, a essere irriconoscibile. Il nostro stesso passato vacillerebbe, incerto e irreale. Forse diventerebbe una questione vitale ricordarlo con maggiore precisione, raccogliere vecchie foto o testimonianze, raccontare com’era un tempo.
Palazzo della repubblica come appariva negli anni della DDR
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A Berlino ho provato spesso questa sensazione di disorientamento e irrealtà: non solo quando la città, dopo la caduta del muro, è stata trasformata radicalmente, ma anche la prima volta che l’ho vista, nel 1985. C’erano luoghi che contraddicevano le aspettative più radicate. Particolari illogici simili a quelli del sogno, dove si mescolano frammenti di diverse realtà. Ho imparato a Berlino che la percezione di un luogo ha delle cadenze regolari. Che il nostro vedere prevede già, immediatamente, un’attesa del mondo. Binari che proseguono sotto un muro. Vie inesistenti, indicazioni stradali che non portano da nessuna parte. Finestre murate. Quartieri fantasma, dove s'incrociano solo pattuglie. E soprattutto i vuoti, improvvisi, senza senso: il cielo, contro cui si spezza l’ala di un palazzo, i campi incolti che si aprono come ferite in mezzo agli edifici urbani. In una città anche i vuoti sono strutturati: una piazza o un parco. È questo che ci aspettiamo di vedere, quando la percorriamo. Le ferite della città, quando l’ho vista per la prima volta, avevano qualcosa di scandaloso. Occorreva richiamare con forza il ricordo della storia, dare una spiegazione a quanto sembrava illogico e incomprensibile. La seconda guerra mondiale e la guerra fredda erano percepibili, con un’evidenza senza pari, nelle deformazioni del tessuto cittadino. Il carattere perturbante dei suoi paesaggi avrebbe colpito il turista più superficiale. Chiunque passasse dalla città, per quanto indifferente fosse alla conoscenza storica, finiva per interrogarsi sul suo passato.
Berlino è oggi, senza dubbio, una città che vuole ricordare il proprio passato. Le sinagoghe sono state restaurate, mostre all’aperto raccontano la storia della città, si passeggia lungo la “strada del muro”. Eppure, chi ha vissuto da vicino il cambiamento sa che il paesaggio è mutato troppo velocemente, che il bisogno di ricordare si è intrecciato a una contrapposta volontà di cancellare e rinnovare. Il muro è stato smontato e demolito nel giro di un anno, i murales più belli venduti all’estero. Solo una decisione rapida, presa dalla municipalità di Berlino est, ha permesso di conservare il settore della Bernauer Strasse. Diversi edifici della DDR sono stati abbattuti; dovunque ci si è affrettati e riempire i vuoti che la guerra ha lasciato. Quando ho rivisto Berlino, nel 1998, dopo qualche anno di assenza, la città stava cambiando a un ritmo sorprendente: un vecchio albergo per artisti era stato trasformato in una banca; dai terreni incolti spuntavano palazzi pieni di uffici; s'incrociavano turisti che vagavano inutilmente alla ricerca del Muro. Tutto doveva cambiare rapidamente, come se solo l’accelerazione, impressa alla storia, potesse garantire l’irreversibilità del cambiamento.
Il cambiamento non si arrestava neppure in quelle parti della città dove si era progettato di conservare o restaurare. Anche i memoriali trasformano una città. Anche l’opera di restaurazione, soprattutto se risale all’indietro di decenni, può modificare un luogo, fino a renderlo irriconoscibile. Come accade nella memoria individuale, la conservazione trasforma i ricordi e spesso li deforma. Ce ne rendiamo conto quando scattiamo una foto o scriviamo un diario. Per riemergere, o essere salvati, i ricordi attraversano trasformazioni coscienti, stratificazioni successive che li modificano. La trasformazione ad opera della memoria è evidente nel caso della Bernauer Strasse. Il luogo è stato ufficialmente dichiarato, Gedenkstätte, luogo della memoria, in altre parole monumento nazionale. Qui si dovrebbe conservare il ricordo del passato. Eppure tutto è cambiato. Chi ha vissuto per decenni nella via, non trova nulla di familiare nel paesaggio che osserva oggi dalla finestra. Ciò che resta del Muro è diventato un parallelepipedo artificiale, un monumento alle vittime del comunismo: i due muri, che un tempo correvano paralleli, sono stati chiusi da due lastre di metallo. Non si può entrare nel memoriale, si può solo osservare dall’alto. A questo fine è stata costruita una torre di metallo dall’altra parte della strada. Le restanti tavole del Muro, giacciono in un campo incolto, in attesa di una futura disposizione. La chiesa della Riconciliazione è stata ricostruita su un progetto moderno. Insomma, il luogo è irriconoscibile.
Ancor più emblematico è il caso del Palazzo della Repubblica. Il palazzo era sede del parlamento della DDR. È stato demolito da poco. Ne restano riproduzioni in miniatura nei negozi di souvenir. Al suo posto c’è un prato immenso dove si riposano i turisti. In futuro ricostruiranno l’antico palazzo imperiale. Altri edifici antichi, nelle vicinanze, sono stati restaurati. I marmi sbiancati dal restauro non hanno più nulla degli edifici fatiscenti, sbrecciati dalle pallottole e anneriti dal fuoco, che i cittadini della DDR hanno visto per oltre quarant’anni. I turisti di oggi non possono immaginare quale visione, da sogno o da incubo, fosse questo luogo. Il passato più lontano, con i suoi frontoni neoclassici, aveva attraversato indenne la tempesta della guerra, ma ne portava il marchio, nei suoi marmi neri e lacerati. Si affacciava fino a noi, come appesantito dagli avvenimenti e si specchiava nel presente, nel mondo effimero, nei vetri ultramoderni, dai riflessi aranciati, del palazzo governativo. Questa visione è rimasta nel ricordo di pochi: gli abitanti di Berlino est, molti di Berlino ovest, qualche turista. E da nessun’altra parte. Anche le città passano, soprattutto quando sopravvivono alla guerra. Più rapidamente degli uomini che le ricordano.


Chris Grabert, Flickr, Regime Creative Commons, Attribuzione non commerciale condividi allo stesso modo.
Palazzo delle repubblica come appariva poco prima dello smantellamento 

Kreuzberg 1985
Era facile, negli anni Ottanta, approdare a Kreuzberg. Nel quartiere si trovava facilmente un posto per dormire, gratuitamente o per poco, per qualche notte o per mesi. L’ospitalità del quartiere non era casuale, aveva ragioni politiche. Kreuzberg era un quartiere periferico, povero, addossato al Muro, abitato da pensionati, turchi, studenti e anarchici. Molte case erano sfuggite alla distruzione della guerra, ma non erano state restaurate o ristrutturate: era difficile viverci, erano prive di bagno e riscaldamento centralizzato. L’amministrazione cittadina, negli anni Settanta, le fece sgombrare, per abbattere quelle in rovina e ristrutturare le altre. Il progetto si trascinò a lungo e ben presto le case furono occupate illegalmente: studenti poveri, ragazzi che si trasferivano a Berlino per evitare il servizio militare, militanti politici e chiunque avesse bisogno di un alloggio economico. Nel 1985, quando conobbi il quartiere, la situazione si stava regolarizzando, l’amministrazione aveva sgomberato molte case, ma aveva permesso di restare, con regolare contratto, a chi si fosse impegnato a ristrutturare i locali. Molti appartamenti restarono così ai precedenti occupanti che ci vivevano in condivisione. L’abitudine di ospitare persone o di lasciare a qualcuno la propria stanza, in caso di assenza, restò immutata. Dormivo a Kreuzberg nel fine settimana, nella stanza di uno studente partito per la Francia. Dahlem, dove lavoravo, era un quartiere di professionisti, al lato opposto della città. Le sue vie erano quiete e alberate, era bello camminare nel verde, guardare i giardini rigogliosi delle ville, sdraiarsi nei parchi, ma il quartiere moriva verso le sette di sera, nelle vicinanze non c’era un cinema o un caffè, non c’era nulla. Quando si entrava a Kreuzberg si capiva immediatamente di entrare in un altro mondo. I gruppi erano ben definiti, ma si mescolavano con naturalezza: nelle vie animate le chiome dei punk svettavano sopra le altre, azzurre, verdi, rosse, nere. Passavano molti pensionati, vecchi abitanti del quartiere, con i carrelli della spesa. Le donne turche si coprivano i capelli con il velo, le più giovani calcavano sopra il fazzoletto dei berretti occidentali o portavano i capelli sciolti. Gli uomini s’incontravano ai crocicchi, portavano in strada una sedia, dopo il lavoro, parlavano turco e leggevano giornali tedeschi. Dalle vetrine dei caffè occhieggiavano strani manufatti, “opere d’arte” costruite con oggetti inservibili, sottratti alla spazzatura, riccioli di ferro, bulloni arrugginiti, frammenti di porcellana, cornici, abiti, giocattoli, vecchie cartoline. Le facciate delle case erano piene di murales. C’era di tutto: l’epopea dell’America Latina e un primo piano del Che, striscioni minacciosi, “Fate attenzione yuppies, qui brucia l’aria”; fiumi arancioni che scendevano in valli immaginarie, golfi azzurri, streghe, cavalli, immensi vermi. Chiunque entrava a Kreuzberg, non importa da dove venisse, si sentiva in una città straniera e familiare, misteriosa e accogliente.
La casa, dove dormivo, si trovava nella Orianien Strasse. Il palazzo era simile ad altri, occupati nel quartiere. Mattoni grigi e sporchi spuntavano dall’intonaco a pezzi. Nessun campanello in strada, portoni sempre aperti, scale sporche, piene di cicche e bottiglie. L’appartamento era in buone condizioni, le pareti imbiancate, il vecchio parquet lucidato. C’era un bagno con vasca e lavandino, ancora una rarità nel quartiere, in casa s'incrociavano degli amici che passavano per fare la doccia. Il WC era in comune con altri, sulle scale. Nell’appartamento vivevano tre studenti, sui trent’anni, cordiali e indipendenti, quando non volevano essere disturbati chiudevano la stanza a chiave, come fosse un appartamento a sé. Alternavano lo studio al lavoro. Uno di loro, Reinhard, viveva in quel periodo con un sussidio statale. Lo facevano in molti. Non usavano il sussidio per necessità, per sopravvivere quando mancava il lavoro. Lo usavano per assaporare un ozio completo, nel significato migliore del termine: l’ozio necessario, a persone libere da ogni attività pratica, per potersi dedicare interamente a un’attività spirituale. Non saprei dire se sia corretto utilizzare in questo modo risorse dello stato, accumulate a fatica per chi si trova in difficoltà. Mi limito a descrivere un fenomeno tipico del periodo. Il sussidio era intorno ai 300 marchi, oggi dovrebbe arrivare ai 600 euro. Sembrano pochi, eppure, in quelle condizioni, era possibile vivere pienamente. I bisogni materiali erano ridotti all’essenziale, ma anche il costo di molti beni era basso. Il mercato turco era fra i più economici, nell’usato si trovavano jeans e scarponi a un marco, l’affitto era irrisorio. Un buon film, nei cineforum, si vedeva per due marchi, i musei erano gratuiti. Reinhard studiava filosofia, la sua stanza era tappezzata di libri, conosceva bene tre lingue straniere, passava la giornata a leggere e la sera inseguiva nel quartiere concerti, letture pubbliche, spettacoli teatrali, riceveva gli amici con cui discuteva di politica e letteratura. Non importava ridurre all’essenziale i bisogni se la vita spirituale poteva svilupparsi più liberamente. L’isolamento di Berlino ovest offriva molti vantaggi ai giovani tedeschi: l’esenzione dal servizio militare, sussidi più alti e facili da ottenere, affitti bassi. Tutte queste condizioni sarebbero cambiate al crollo del Muro: l’alto tasso di disoccupazione e l’immigrazione dall’Est, avrebbero cambiato le condizioni per accedere agli aiuti di stato: più rigidi i controlli, più onerose le condizioni. Anche gli affitti, con Berlino capitale, sarebbero cresciuti rapidamente, in particolare nelle aree centrali. Nessuno, oggi, riuscirebbe a vivere altrettanto bene con il sussidio.
Nel 1988, quando tornai a Berlino, il palazzo era vuoto, pronto per essere ristrutturato. Tutti i palazzi antichi della città, di lì a poco, avrebbero seguito la stessa sorte, all’Est come all’Ovest. Sanieren è il termine usato: risanare. Una parola che ricorda una ristrutturazione asettica, una bonifica di appartamenti e di abitanti. Nei palazzi restaurati, entrano sempre nuovi inquilini, adatti agli affitti più alti. Passai da Oranien Strasse, senza avvertire, per fare una sorpresa. Il portone sulla strada era aperto, ma appena mi inoltrai nel cortile interno, notai un nuovo stato d’abbandono. Le finestre erano più sporche del solito, il cortile era pieno di cartoni stracciati dalle intemperie. Non c’era segno di vita, non una pianta, una tenda colorata, niente. L’intero palazzo era disabitato. Salii verso l’appartamento. Il campanello non funzionava, ma c’erano ancora i vecchi nomi. La toilette sulle scale era aperta. Provai a tirare lo sciacquone, così per scherzo, non c’era acqua. Davanti alla porta dell’appartamento c’erano degli stivali da donna, impolverati ma in buono stato. Forse qualcuno, già carico di pacchi, aveva deciso di abbandonarli all’ultimo momento, poco prima di lasciare per sempre la casa. Restai a fissarli come incantata, erano l’unica traccia materiale, quasi corporea, delle persone che avevo conosciuto. Non mi rimase altro. Più tardi tentai di rintracciare Reinhard sull’elenco telefonico, ma non riuscii a trovarlo. Sono tornata ancora una volta a Oranien Strasse, dieci anni dopo: la casa era stata risanata, la facciata ridipinta in giallo ocra, il portone ripulito e laccato di grigio. Era chiuso. Lessi i nomi sui campanelli, nessuno aveva qualcosa di familiare.
Kreuzberg è rimasto un quartiere ad alta presenza straniera, molti turchi hanno migliorato le loro condizioni economiche, hanno aperto locali, i loro figli hanno frequentato l’università, alcuni di loro sono diventati scrittori e registi. In fondo, il quartiere è cambiato meno di altri, ma non c’è più nessuno che possa ospitarmi, a Kreuzberg. Se volessi dormirci, oggi, dovrei pagare dai 40 ai 100 euro al giorno, in un albergo o nell’appartamento di un palazzo restaurato.


Palazzo della repubblica durante lo smantellamento
Axel Bruns, Flickr, Regime Creative Commons, Attribuzione non commerciale condividi allo stesso modo


Potsdamer Platz 1998
Dappertutto, all’aperto o al chiuso, la città assomigliava a un cantiere. Bastava fare un giro con la S-Bahn, una metropolitana a cielo aperto, per vedere le gru che assediavano la città, come guerrieri di metallo. Si lavorava sopra e sotto. Anche le stazioni della metropolitana venivano restaurate o completamente rinnovate. Ogni stazione, a Berlino, ha un proprio carattere: pilastri verdi di metallo laccato, piastrelle dalle geometrie messicane, rilievi in cornice di marmo. Spesso bisognava scendere a una stazione e proseguire in autobus. Dovunque si camminasse, bisognava stringersi contro i muri, aggirare gli squarci aperti. La città era piena di ferite, si apriva da tutte le parti, demolizioni, spostamenti, ricostruzioni. La ferita più grande era alla Potsdamer Platz: l’Hotel Esplanade doveva essere spostato dall’antica sede, disturbava la realizzazione del progetto, le fondamenta dei grattacieli futuri sprofondavano sotto terra, avevano chiamato dei sommozzatori che lavoravano nell’acqua. Lo squarcio era brulicante di vita, le luci erano accese ventiquattro ore su ventiquattro. Una città cresceva al contrario, sotto terra, muratori, carpentieri, ingegneri, elettricisti, collaboravano notte e giorno, per finire nei tempi fissati. Chi si sporgeva dall’alto della balaustra, era preso da una vertigine, tanto in basso scendevano le fondamenta. Sembrava un’immensa città sotterranea, una seconda Berlino, cresciuta sotto la vecchia, per annientarla.
Molti berlinesi non amano la Potsdamer Platz, così com’è oggi, con i suoi grattacieli leggeri, aerei, lontani dalla vita e senza memoria. La piazza ha un’aria artificiale, posticcia, sembra costruita per nascondere qualcosa. La realtà appartiene ai quartieri abitati, alla vita quotidiana, dove l’antico e il moderno si mescolano, dove le città si rinnovano e conservano qualcosa del passato. Alla Potsdamer non si abita: si lavora, si guarda, si compra.
Negli anni Ottanta la piazza era una terra di nessuno dove crescevano solo erbacce. Nel 1985, frequentavo la Stadtbibliothek, a Berlino ovest. La caffetteria aveva un’intera parete di vetro e si affacciava sul campo desolato della Potsdamer Platz. Non so che cosa pensassero gli altri davanti a quella distesa vuota. Sicuramente metteva tristezza. Il muro non si vedeva bene, da quel punto; si mimetizzava dietro l’erba alta, si vedeva solo la corona delle case che ricompariva lontana, all’altro capo del deserto. Si percepiva soprattutto il vuoto, l’assenza di quello che esisteva un tempo. Si pensava alla guerra, più che al muro: alla potenza delle armi moderne, a quanto sia semplice radere al suolo ciò che è stato costruito con cura, arte, impegno, entusiasmo, da altri esseri umani. Nessun racconto, neppure le testimonianze dirette che ho avuto modo di sentire, mi hanno dato una percezione così chiara di cosa sia la guerra. Non solo la paura, non solo la minaccia della morte o della violenza, ma la perdita del proprio mondo, dello spazio riconoscibile e stabile in cui s’inscrive l’esistenza. Nella biblioteca vendevano foto della piazza che risalivano agli anni Trenta. Ne usavo una come segnalibro. La conoscevo a memoria. Non m'interessavano gli edifici progettati da famosi architetti, ma le persone che ci vivevano, come attraversavano la piazza o cambiavano tram, indaffarate, inconsapevoli, forse colpevoli. Guardavo i negozi più quotidiani, quelli che si conoscono sempre: una farmacia, una tabaccheria. Cercavo quei particolari che rappresentavano la struttura permanente della vita quotidiana. Attraversare una distesa desolata al centro di una città, sentire l’assenza delle persone che ci hanno vissuto, non è come guardare una foto di quella stessa distesa o leggere un articolo che ne parla. Il primo caso è un’esperienza della guerra, il secondo è un ricordo organizzato, è storiografia. È possibile, ma molto difficile, trasformare la storiografia in esperienza.
Tutti dicevano: “Berlino è un cantiere.” La città sembrava presa dal furore: un’ansia di guarire le sue ferite, in particolare quelle della divisione, di trasformare il passato: si è cancellato il passato della DDR per riesumare quello imperiale, si è demolito un palazzo che appartiene alla storia di tanti per ricostruirne un altro, posticcio, che più nessuno ricorda. È difficile afferrare pienamente il senso di queste cancellazioni. Molte voci di critica si sono levate, Berlino ha in sé molte culture, fortunatamente: per ogni atto di cancellazione si sono aperti dei conflitti, ci sono state discussioni. Il Muro, il Palazzo della Repubblica, e con loro altri edifici, non raccontano solo la storia della guerra fredda e del comunismo, ma anche quella del nazismo e della II Guerra Mondiale. L’oblio è indispensabile alla nascita del nuovo, ma sono i ricordi delle esperienze passate che ci avvertono dei pericoli.
Alla cerimonia d'inaugurazione della Potsdamer Platz avevano appeso, sui grattacieli dei nuovi palazzi, dei teli di vinile su cui erano stampate delle immagini, tratte dalla storia di Berlino. Era una visione di grande effetto scenografico. All’inaugurazione i teli dovevano crollare a terra, le foto ricordo scomparivano e al loro posto emergevano gli edifici appena nati. La storia cadeva, per far posto al futuro. La città era pronta a dimenticare, per continuare a vivere.
Le ferite che Berlino esibiva erano terribili, ma indicavano agli essere umani, con evidenza, cosa non si doveva fare. Ora possiamo passeggiare sul Muro, spostarci a nostro piacere in ogni parte della città, frequentare persone dell’Est, ma è bene non dimenticare, per quanto sia triste, quello che è accaduto. Pochi sarebbero d’accordo con me, eppure avrei preferito che la Potsdamer Platz restasse com’era, un luogo della memoria, una terra piatta e deserta che poteva ricordare le ferite passate, come una tomba di marmo. Su questa terra desolata lo sguardo avrebbe potuto riposare in pace, fermarsi consapevole sul vuoto che si era aperto, proprio nel cuore della città. Qui avremmo potuto ricordare la guerra e tutti i suoi morti. Non solo la guerra fredda. Ogni guerra.

L'area deserta, come appariva nel 2009, ultimata la distruzione del palazzo.
D.Askey, Flickr, Creative Commons, attribuzione non commerciale condividi allo stesso modo.

Sophienfriedhof 2002
Alcune delle riprese più spettacolari, nella storia del muro, provengono dalla Bernauer Strasse. Qui la divisione ha avuto un carattere duplice: drammatico, e luttuoso da un lato, bizzarro e stravagante dall’altro. Il settore è fondamentalmente indivisibile per le sue caratteristiche urbane. L’ostinazione burocratica, comune a entrambe le parti, con cui si sono mantenuti i confini, ha qualcosa di assurdo, se non di comico. La linea di separazione passava, infatti, davanti alle case che si affacciavano sulla Bernauer Strasse. Le facciate appartenevano all’Est, ma il marciapiede, delle stesse case, apparteneva all’Ovest. Si comprese presto, alla chiusura del settore sovietico, che la zona sarebbe diventata un punto privilegiato di fuga. Bastava entrare dall’Est in una casa della Bernauer e uscirne all’Ovest, saltando dalla finestra. Inutilmente furono evacuati e chiusi gli appartamenti al piano terra. Ci si buttava anche dai piani superiori, atterrando sui teli che i vigili del fuoco stendevano sotto, nella zona ovest. Ci si buttava a rischio della vita e molte persone sono morte nel tentativo di passare dall’altra parte. Divenne famosa la vicenda di una vecchia signora, una certa Frieda Schulze. Mentre stava per prendere il volo da una finestra del secondo piano e planare dolcemente su un lenzuolo, fu afferrata per le braccia da due guardie dell’Est. Per un attimo rimase sospesa nel vuoto, spenzolando dalla finestra, poi un vigile dell’Ovest salito sulla finestra del primo piano, riuscì ad afferrarla per una gamba. Per qualche secondo, la vecchietta rimase in equilibrio, contesa fra le forze che combattevano per il suo corpo: le guardie, che la tiravano verso l’alto, i vigili, che la tiravano verso il basso. Poi, per fortuna, le guardie lasciarono la presa e lei cadde sul telo, senza farsi troppo male, insomma atterrò all’Ovest. Le vicende della Bernauer indussero il governo a prendere misure drastiche. Gli abitanti furono evacuati, le finestre murate, sui tetti si stese il filo spinato. Più tardi tutte le case furono demolite e restò solo il muro del primo piano, con finestre e portoni sbarrati.
Alla Bernauer Strasse appartiene anche la chiesa della Riconciliazione, distrutta dalla guerra e ricostruita negli anni Cinquanta. Rimase incastrata in mezzo al Muro, nella striscia della morte, dove pattugliavano le sentinelle. Era visibile da chiunque facesse una passeggiata in zona. La fecero saltare in aria nel 1985. Negli anni precedenti il muro era stato ricostruito con pannelli di cemento armato. La parete a ovest doveva essere uniforme. Gli edifici intrappolati nel Muro, o deformati dalla sua espansione, furono demoliti, ogni traccia di distruzione fu rimossa. Il nuovo muro doveva essere liscio, bianco, asettico, non lasciare trapelare nulla, di quant'era accaduto.
Il cimitero Sophienfriedhof confinava con la Bernauer Strasse. Il muro del cimitero coincideva esattamente con la linea di separazione, era una parte del Muro. Come tutti sanno, il Muro era doppio. C’era un muro esterno, che separava dall’Ovest, e un muro di sicurezza interno, che impediva di avvicinarsi al confine. Fra i due muri si doveva costruire una strada asfaltata e piantare dei lampioni. La striscia di sicurezza finì per occupare una parte del cimitero. Cosa fare dei morti che si trovavano nella striscia? Non si poteva certo costruire una strada sui morti, marciare sulle tombe, ficcare in una bara un palo della luce. Oppure sì? Nei primi anni del Muro il Sophienfriedhof era ancora frequentato, persino gli abitanti dell’Ovest avevano ottenuto dei permessi speciali, per visitare i propri morti. Ci sarebbero state delle proteste se le tombe fossero rimaste intrappolate fra i due muri. Le tombe furono rimosse nel 1967. Anche i morti della Bernauer Strasse, come prima gli abitanti, furono evacuati.
Nel 2002 feci una passeggiata per il cimitero. Era il Venerdì Santo, un giorno freddo, senza sole. Il cimitero era vuoto, ma non era triste. Era pieno di alberi secolari e fiori. Proseguivo a caso, lungo i sentieri tortuosi che si snodano in mezzo alle lapidi. Mi fermai davanti a una tomba abbandonata: sulla lapide storta, invasa dalle piante selvatiche, erano stati attaccati due adesivi, uno giallo e uno rosso. “Attenzione! Pericolo! Lapide malferma! I parenti sono pregati di rivolgersi all’ufficio,” diceva quello rosso. E quello giallo concludeva: “Fra poco tempo la lapide verrà rimossa o posata a terra.” L’abitante della tomba era morto nel 1958, prima della costruzione del Muro. Le tombe con i “bollini” erano tantissime e raccontavano la stessa storia: i parenti del morto erano rimasti nel settore occidentale, la tomba era rimasta nel settore russo. Per qualche tempo il governo aveva rilasciato dei permessi di visita, poi aveva impedito ogni accesso al cimitero.  Erano passati decenni, i parenti si erano trasferiti altrove, forse erano morti, e la tomba era stata abbandonata. Una storia come tante.  
In fondo al cimitero, la striscia della morte, ancora riconoscibile, era divisa in due parti. Da un lato c’era il memoriale, il monumento alle vittime, la torre di osservazione e il centro di documentazione. Dall’altro c’era uno spiazzo incolto, disordinato e caotico, simile a una discarica. Le lapidi tombali, rimosse dall’amministrazione del cimitero, erano accatastate alla rinfusa, sporche di terra. Formavano un’immensa montagna di marmo che ricordava il giorno del giudizio, quando le tombe si aprono e i morti volano in cielo. Tutt’intorno erba secca, stracci, tubi, pezzi di rete metallica, pannelli del Muro sparpagliati sul terreno. La comunità del cimitero avrebbe voluto riavere il terreno che il regime gli aveva sottratto nel 1967. Era contraria alla decisione ufficiale di conservare il Muro e farne un monumento nazionale. Con un colpo di mano, aveva smontato i pannelli, in segno di protesta, e li aveva lasciati sul terreno, in attesa che le autorità decidessero diversamente. Sulla destra, il Muro era già ordinato in ricordo, adatto a essere visitato dai turisti o studiato sui libri. Sulla sinistra, era ancora qualcosa di vivo, un luogo di dolore, di parenti dispersi, di tombe da sistemare, di lapidi rimosse. Un luogo di conflitti: cosa ricordare, quale passato conservare, cosa distruggere?
Oggi il Sophienfriedhof è tornato ad essere un cimitero ordinato, le lapidi ammassate in fondo sono state portate via, non so dove. I pannelli, tolti dal Muro per protesta, sono accatastati ordinatamente sul terreno. Dovrebbero tornare al loro posto per ricordarci com’era divisa un tempo la città. Alla comunità del cimitero è stato assegnato un nuovo terreno, per compensare quello perduto. La memoria è riuscita nella sua operazione difficile: dare un ordine al luogo. Come un custode del cimitero, ha rimosso le lapidi malferme, curato il giardino, piantato nuove lapidi. I morti evacuati, le tombe abbandonate, le lapidi accatastate; la comunità religiosa, che voleva salvare un passato, il senato, che voleva salvarne un altro: che tutto riposi in pace, forse è meglio così. Lasciamo che i turisti leggano sulle guide la versione semplificata, prendano il sole, facciano foto, sorridano.
Il Muro è caduto, ma lungo la Bernauer, resta un altro muro, che non attira più i giornalisti. È la solita linea di confine, quella che attraversa tutte le città del mondo. Da una parte il quartiere di Prenzlauerberg, con le case antiche, accuratamente restaurate, le facciate liberty o neoclassiche, mille caffè e ristoranti, gli affitti alti, parchi curati e sicuri, buone scuole; dall’altra parte il quartiere di Wedding, evitato dai turisti, coi condomini anonimi degli anni Settanta, gli affitti da pensione o da sussidio, gli stranieri disoccupati, vita sociale scarsa, di notte strade deserte e poco sicure, scuole difficili. C’è solo una strada che separa i due quartieri, la Bernauer. E un muro invisibile.

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